martedì 9 febbraio 2010
TRA TERRA E CIELO
DECIMO GIORNO
La notte passa tranquilla anche se ho l’impressione di non
aver né dormito né sognato; sarà forse che il vero sogno lo sto per
vivere ad occhi aperti? A lungo ho infatti atteso questo giorno.
Quando ci dirigiamo verso il luogo adibito a ritrovo dalla Colque
Tour il pueblo sembra sonnecchiare ancora nella prima tenue luce del
mattino. La nostra fidata cagnolina che abbiamo soprannominato
“Codina”, per via di quel suo scodinzolare ossessivo, ci segue come
se volesse o potesse venire con noi per sempre. Linda e i bagagli
salgono sul minivan dell’agenzia, con noi ci sono altri ragazzi con i
quali presumo resteremo insieme per i prossimi tre giorni, e salutato
Gabriel, con la promessa di risentirci tra due settimane, io faccio rotta
verso la dogana. Codina continua seguire la moto e il furgoncino fino
a quando le nostre strade non si dividono lasciandola immobile in
mezzo alla strada ad osservarci con occhio languido e malinconico.
Dopo essermi sorbito un po’ di camionisti in fila è il mio turno: mi
fanno qualche domanda, controllano la targa della moto, ed ecco che
sono libero di passare oltre. A dire il vero oltre agli uffici non ci sono
grandi controlli e ripartito potrei tranquillamente svoltare per il centro
del paese per andare a vendere la moto a chi mi pare da bravo
contrabbandiere.
Per un istante chiudo gli occhi e giro al massimo la “manetta”
del gas, ho l’impressione di volare su di una pista di decollo verso il
paradiso, getto uno sguardo nel fondo dello specchietto retrovisore e
vedo il minivan con Linda e i nuovi compagni di viaggio che si fa ora
piccolo piccolo. Il motore gracchia con voce cupa mentre affronto
ampi curvoni contornati da una vegetazione brulla e rinsecchita. Qua
e là alcuni lama pascolano indisturbati, il cielo è limpido e salendo di
quota ho l’impressione che la mia anima si alleggerisca sempre di più.
Avverto una sensazione di pace interiore e di libertà assoluta, ora
sono a oltre 4.000 m s.l.m. e ammiro il cartello che mi ritrovo
improvvisamente di fronte: dritto, proseguendo per la strada asfaltata
indica Argentina, a sinistra invece, lungo una strada di terra battuta
che si perde lungo le pendici di un vulcano che sfuma dal grigio al
mattone leggo finalmente “Bolivia”. Mi fermo a contemplare il
paesaggio in attesa dei miei compagni, a tenermi compagnia solo il
vento che soffia gelido e indisturbato.
Appena arrivano mi infilo dietro alla scia polverosa del
minivan e in pochi minuti di pista ben battuta giungiamo alla
frontiera; anche se definirla tale è un grosso affronto alle frontiere
vere. Una casupola bassa in cemento armato è tutto quanto ci
ritroviamo di fronte, poco distante fuori di qui la carcassa
bruciacchiata di un vecchio pullman giace indisturbata e noto che
nessun’altra opera umana presidia questo confine che mi appare quasi
immaginario; i doganieri poi sembrano decisamente interessati solo a
farci pagare la tassa di accesso a questa zona che è considerata parco
nazionale. In pochi minuti passando attraverso una guardiola
addobbata con qualche foto segnaletica che giace minacciosa sulle
pareti fredde e spoglie, abbiamo i nostri timbri sul passaporto; per la
moto mi dicono che dovrò fare dogana in seguito. Il minivan viene
prontamente sostituito da una jeep e il gruppo si divide tra chi
prosegue diretto fino a Uyuni, dove ci dicono arriverà in tarda serata,
e chi come noi ha optato per un tour di tre giorni. Il nostro gruppo è
formato da Pedro e Sandra, due ragazzi spagnoli che si sono
conosciuti a Santiago che ora stanno facendo un tratto di strada
insieme e da due ragazze svizzere; carichiamo i bagagli sul tetto
insieme alle scorte di viveri, acqua e benzina e partiamo.
Seguo la jeep, pronto a macinare chilometri, ad una distanza
che mi permetta di non mangiare troppa polvere, ma dopo pochi
minuti siamo già in sosta per la colazione: ci fermiamo in una
costruzione di adobe ai bordi della Laguna Blanca, la prima della
grandi lagune altiplaniche che troveremo oggi sulla nostra strada.
Parcheggio la moto, che ha già iniziato ad impolverarsi, a fianco della
jeep e mi delizio gli occhi con uno splendido spettacolo della natura:
davanti a me ho un vasto lago d’acque basse e trasparenti che
riflettendosi tra cielo e fondale appaiono come uno specchio
lattiginoso dove le montagne riflettono il loro spigoloso profilo. Poco
distante un cartello malandato e un poco ritorto recita a caratteri
cubitali: “Esta es mi Tierra…BOLIVIA ¡BIENVENIDOS!”.
In casa ci ritroviamo davanti ad una tavola apparecchiata in
modo pressoché perenne per i turisti di passaggio, con pane secco,
marmellate e una gran quantità di mate. Mangiamo qualcosa senza
esagerare visto che, per quanto ora sembri che l’altura non dia
problemi, è meglio restare vigili e non appesantire troppo lo stomaco;
decidiamo però di provare il famoso mate de coca, un tè ricavato
dall’infusione delle foglie di coca. La pianta, che è largamente usata
da tempi immemorabili da tutte le popolazioni andine per sopportare
la fatica e la vita a queste quote, agendo come blando eccitante
favorisce l’ossigenazione del sangue e contribuisce a diminuire la
sensazione di fatica; il sapore non risulta particolarmente buono, ma
nemmeno cattivo, lo definirei solo……erbaceo. Prima di partire,
curioso un po’ nei dintorni e finalmente sbuca qualche abitante di
questo avamposto sperduto, ed io non posso fare a meno di scattare
una foto a Guadalupe, la bambina di casa. A prima vista potrebbe
sembrare un paffuto bambolotto, dai capelli e gli occhi neri come la
pece, ma nel suo sguardo che appare triste, più che curioso, si
rispecchia tutta la durezza di una vita isolata dal resto del mondo, in
scenari per noi da favola almeno quanto per loro solitari.
Siamo pronti a ripartire ed ora che la giornata entrerà nel vivo mi
sento a mille, non ho idea di cosa mi attenda, ma ho una voglia folle di
scoprirlo e le premesse sono di certo le migliori. Appena ripreso il
cammino, come da copione, mi rimetto a seguire la jeep a debita
distanza, la pista ora si è fatta di sabbia bianca e granulosa, devo fare
attenzione a dove metto le ruote e sono già certo al 100% di aver fatto un
ottima scelta a decidere di non affrontare questo tratto di strada con il
passeggero in sella. La pista si divide poi si riunisce, quello che mi
ritrovo davanti alle ruote non sono altro che i segni lasciati dalle auto di
passaggio e nulla più, seguo ipnotico la macchina che ora svolta
all’ultimo momento a destra, la mia manovra non è molto convinta e il
solco di sabbia che mi appresto a tagliare è troppo alto per essere
superato con così poca decisione. Trattengo il respiro e sento la ruota
anteriore che scivola esattamente come mi sarei aspettato che facesse, ho
pochi istanti per fare l’unica cosa che mi resta da fare……lascio che la
moto scivoli su di un fianco e io mi appoggio di lato nella sabbia ruvida,
con la faccia nella polvere. Alzo la testa e osservo qualche secondo la
jeep che si allontana incurante, fino a quando il rumore del motore mi
distrae e mi affretto a girare la chiave per spegnerlo. Poi con difficoltà
chiudo i rubinetti della benzina, uno dei quali è seppellito nella polvere
sotto ad oltre due quintali di ferro. In un attimo sono passato dalle stelle
alle stalle, nessun danno fisico per fortuna, ma trovarsi con il naso in
terra dopo appena dieci chilometri quando ci sono davanti tre giorni di
viaggio fuori strada è decisamente pessimo dal punto di vista morale.
Non c’è nessuno all’orizzonte e non mi resta che provare da solo a
raddrizzare la moto. Infilo il ginocchio sotto al serbatoio mentre con una
mano impugno il manubrio e con l’altra la maniglia posteriore, poi
prendo un gran respiro e metto tutta la forza che possiedo nelle gambe e
nelle braccia. La moto si alza a 45 gradi, stringo i denti, impreco, ma non
c’è verso di andare oltre, il mezzo pesa praticamente quattro volte me e
convengo che continuare a sfinirmi è tutto fuorché utile. Mi tolgo il
casco imprecando, butto la giacca a terra, ora l’aria fresca non basta a
fermare il sudore che sento colare come pioggia lungo il corpo. Guardo
intorno e in tutte e due le direzioni vedo solo una pista di sabbia senza
segni di vita umani, il cielo è di un blu talmente intenso che mi sembra
quasi di poterlo afferrare e la Luna mi osserva da lontano in pieno giorno
mentre si adagia quieta dietro alla silhouette del Licancabur. Mi avvio a
piedi sconsolato verso la casa in riva alla Laguna Blanca dove abbiamo
fatto colazione; l’aria limpida e il fatto di non avere ostacoli tra me e loro
la fanno sembrare vicina, provo a sbracciarmi sperando di essere notato
da qualche turista ma probabilmente per loro sono soltanto un minuscolo
puntino nell’orizzonte. Mentre cammino mi volto di tanto in tanto e
quando mi accorgo che una jeep sta venendo nell’altro lato il sorriso mi
si stampa sul volto come in un fumetto. Finalmente qualcuno si è accorto
che mancavo!!
Quando arrivano sembrano tutti inutilmente preoccupati per la
mia salute, tutti tranne Pedro che non c’è perché si è fatto lasciare per
strada a scattare foto, mentre io mi preoccupo giustamente della benzina
che continua imperterrita a gocciolare dal tappo del serbatoio da alcuni
minuti. Con l’aiuto di Linda e di Doro, l’autista, raddrizziamo la moto
che presenta solo qualche insulso graffio, poi Doro inizia a farneticare
chiedendomi se voglio riportare la moto a San Pedro!! In questo istante
vorrei potergli rivolgere nella mia lingua tutti gli epiteti possibili, ma
l’utilizzo di una lingua straniera mi impone di essere garbato e gli spiego
solo un po’ scocciato che forse è decisamente meglio se vado avanti io
così vedo dove metto le ruote e soprattutto se dovessi insabbiarmi ancora
loro vedrebbero me! Presa coscienza dei pericoli di giornata risalgo in
sella e si riparte.
Qualche chilometro più avanti la sosta per ammirare la splendida
Laguna Verde mi permette di riflettere e riordinare le idee sul modo di
procedere. La laguna è splendida, con il vulcano che si staglia tra il cielo
e le sue acque immote…..verdi appunto. Restiamo immobili e attoniti a
goderci lo spettacolo qualche minuto; qualsiasi parola per descriverlo
sarebbe soltanto riduttiva rispetto a ciò che la natura ha creato durante
millenni. Quando ripartiamo chiedo a Doro che pista seguire, mi osserva
perplesso e sembra che ne sappia meno di me. Inizio a pensare che non
ne capisca poi tanto e che in fondo era ben altra cosa essere liberi ed
indipendenti!
Ora guido con gli occhi ben piantati sulla strada, mi rendo conto
che probabilmente mi avrebbe fatto bene un po’ più di pratica off-road
prima di partire e soprattutto che questa non è esattamente la moto adatta
a questo tipo di tracciato, ma ora siamo qui e di certo non è il momento
di fare considerazioni sterili. Tengo il motore su di giri con marce basse
e quando sono obbligato a saltare da un canale di sabbia all’altro entro
deciso e pronto ad aprire il gas per avere trazione. I canali lasciati dalle
numerose jeep di passaggio sono la cosa più pericolosa per la mia
incolumità e sarebbe probabilmente meno impegnativo guidare fuori
pista, ma potendo vedere la strada me la cavo con qualche colpo di coda,
di gas e con le braccia. Dopo qualche chilometro incrocio altre due moto
e non posso credere ai miei occhi! La prima è un BMW 1150GS con a
bordo 2 persone e le valigie; sono bianchi di polvere dalla testa ai piedi.
Ci fermiamo uno accanto all’altro, hanno la faccia stravolta e mi
chiedono in inglese quanto manca di questo strazio di strada e dove sono
diretto. Quando rispondo non capisco se sono più dispiaciuti perché per
loro mancano ancora una ventina di chilometri o per tutta la strada che
devo ancora percorrere io, di certo capisco che per loro la strada è “not
good”. Riparto alzando la mano in segno di saluto alla moto che li segue
a poca distanza e punto di nuovo gli occhi verso un orizzonte che appare
bello e malvagio. Davanti a me non c’è altro che una pista lattiginosa che
si perde in un orizzonte fatto da montagne di cartapesta, cime che si
colorano con tutte le sfumature del grigio e del marrone andando a
sbattere contro una coperta di lapislazzulo talmente intensa ed uniforme
da non sembrare reale.
Ora ho la certezza di essere pazzo del tutto, rido di gioia e urlo
solitario nel mio casco, poi mi alzo in piedi sulla moto per avere la
certezza che questo orizzonte non abbia mai fine. C’è una luce da
cavarmi gli occhi nonostante gli occhiali scuri e la visiera anti UV. Le
frustate che di tanto in tanto mi becco alla schiena, quando la moto scoda
sulla sabbia irregolare e ondulata, sono solletico in confronto al senso di
libertà che provo a viaggiare in questo luogo dove mi sembra di essere
sospeso tra la Terra e il Cielo. Devo avere però sempre gli occhi ben
aperti e procedere ad una velocità controllata perché in queste condizioni
è un attimo cadere e rompersi qualcosa o, alla peggio, beccarsi un bel
visto per l’eternità senza scadenza. Mi vedo scorrere a fianco le strane
rocce del “Deserto Salvador Dalì”, che ha preso questo nome per essere
stato ritratto dal pittore nei suoi quadri, e poi dopo l’ennesimo saliscendi
e quasi ottanta chilometri di off-road arriviamo finalmente all’area
destinata al pranzo.
Ci fermiamo in una costruzione di cemento dove troviamo altre
5-6 auto di altre spedizioni ferme per il pranzo. Siamo in riva ad un vasto
salar d’alta quota, il Salar de Chalviri, l’acqua lambisce le rive ricoperte
dal sale e da una vegetazione bassa e giallognola, il cielo immoto nel suo
blu intenso ed impenetrabile è ora orlato da bianche nubi soffici e
spumose. Parcheggiata la moto scendo per sgranchirmi e mi rendo subito
conto che l’altura dà i suoi effetti, mi gira la testa e non mi sento affatto
bene; cerco di fare movimenti controllati e di respirare in modo regolare.
Alcuni turisti fanno il bagno nelle acque termali calde che sgorgano a
qualche decina di metri dalle rive del lago, ma non mi sembra il caso di
spogliarsi ed immergersi, anche se l’acqua calda potrebbe per lo meno
contribuire ad abbassare la pressione corporea.
Pranziamo all’interno del rifugio sopra uno dei tanti tavoloni che
arredano l’ampio stanzone con vista salar, il cibo portato in dote
dall’agenzia è pessimo, ma per fortuna che c’è l’ironia di Pedro a tenere
banco perché per il resto non c’è molto da stare allegri e soprattutto
pensando che per tre giorni sarà così ringrazio di avere la nausea causata
dall’altura. Ripartiamo nel primo pomeriggio e la strada sembra essere
inizialmente più percorribile per le mie ruote, il fondo è ora
prevalentemente roccioso e la sabbia non è altro che un sottile velo steso
sopra. Stiamo ancora salendo di quota mentre mi godo il paesaggio e la
momentanea rilassatezza quando ad un tratto, gettando un sguardo allo
specchietto, non vedo più la jeep dietro di me. Guardo in ogni dove e
quando sto per demoralizzarmi la ritrovo che scende verso il fondo di
una valle chiusa. Pensando di aver sbagliato strada ritorno sui miei passi
e mi infilo in una delle pietraie che portano verso il basso. Durante la
discesa accade qualcosa di inatteso, il motore sembra non prendere più i
giri e quando tento di aprire la “manetta” del gas invece di aumentare di
regime sembra soffocarsi. Provo e riprovo poi il motore si ammutolisce
di colpo. Giro la chiave, premo il pulsante, ecco di nuovo il suono
soffocato e cupo, vado avanti così per circa dieci minuti fino a quando
tra un rantolo e l’altro esce una grossa sbuffata di fumo nero e denso
dallo scarico e il motore ricomincia improvvisamente a girare come
prima. Quando riesco a raggiungere i miei compagni di viaggio ho
finalmente la certezza che Doro non capisce niente: la deviazione fatta
senza avvertirmi era per vedere il campo geyser di Sol de Mañana, che
ovviamente in questo momento della giornata essendo pomeriggio non
sono altro che pozze d’acqua ristagnante. La sosta era per altro un evento
previsto nel tour e mi domando ancora di più come mai non mi abbia
avvertito prima della deviazione……invece di farmi credere di aver
sbagliato strada!! Dopo un veloce scambio di battute mi rimetto in strada
lasciando i miei compagni a fare foto, dalle indicazioni ricevute tra poco
troverò un bivio nel quale dovrò procedere dritto per circa una decina di
chilometri al termine dei quali dovrei trovarmi alla dogana per registrare
l’ingresso della motocicletta in Bolivia. La strada che continua a salire è
ben battuta e decisamente più guidabile di quella affrontata nella prima
parte di giornata, tanto che ad un certo punto dopo l’iniziale sorpresa mi
ritrovo a sorpassare un camion con rimorchio che procede nella mia
stessa direzione!
Sono arrivato ad un passo dal cielo quando improvvisamente mi
ritrovo davanti ad una sbarra. Alzo gli occhi ed ho l’impressione che
basti alzare un dito per toccarlo e vederlo mentre si infrange
trasformandosi in mille frammenti di pietre preziose; parcheggio la moto
sulla destra e mi tolgo il casco. Da una piccola casupola in cemento
spunta un militare che uscendo dalla sua garitta si avvicina. Sembra
decisamente sorpreso di vedermi, certo lo è più di me, cercando di non
dare peso a quel suo sguardo guercio e allo stesso tempo spaesato, gli
spiego che devo registrare il mezzo alla dogana. Mi indica la costruzione
più ampia, circa cinquanta metri più avanti, dalla quale un comignolo
grigiastro sputa un fumo bianco che appare leggero ed evanescente;
ringrazio e passo avanti gettando l’occhio sulla branda nuda e minimale
all’interno del fabbricato. Ora sto affrettando qualche passo tra l’aria
gelida, ma mi accorgo che la testa è instabile e sembra legata ad una
giostra che non smette di girare su se stessa. Rallento. Alzo gli occhi.
Davanti a me c’è qualcosa che mi spiazza e allo stesso tempo spiega lo
stato fisico in cui mi trovo. Attaccato al freddo e rude muro c’è il cartello
che indica la dogana, a fianco l’altitudine a cui ci troviamo: 5.020 m
s.l.m.! Sono partito questa mattina da poco più di 2.000 m e in mezza
giornata sono arrivato più in alto della vetta più alta d’Europa in moto!
Rallento il passo e mentre lo sbuffo di aria calda mi investe aprendo la
porta, è come se potessi vedere il sorriso ebete di soddisfazione che mi
ritrovo stampato in viso senza poter fare nulla per cancellarlo. Giro uno
stretto corridoio, saluto, porgo i miei documenti all’impiegato che mi
accoglie e siedo cercando di trovar pace per la mia testa che continua a
girare. In pochi minuti è tutto fatto, in questo angolo sperduto di terzo
mondo è bastata una registrazione preventiva fatta sul sito internet
dell’agenzia doganale boliviana per farmi entrare con un mezzo
immatricolato in Europa e senza spendere un solo centesimo. Pensare
che ero pronto ad elargire tangenti o a pregare in Quechua pur di entrare,
ed alla fine è stato molto più semplice di quello che probabilmente
sarebbe stato se da straniero avessi dovuto entrare in Italia; benedetto
progresso.
Saluto, richiudo la porta dietro di me e mi avvio di passo verso la
moto. Il militare è ancora lì. Mi guarda con quel suo sguardo buffo. Io
guardo lui e ad un tratto mi sembra di intuire cosa gli passa per la testa,
quali pensieri gli attraversino la mente. Io in questo istante sono la sua
finestra sul mondo. Sono il suo esatto opposto. Sono la speranza, la
libertà pura che arriva con una moto, volteggia tra la Terra e il Cielo e
riparte verso nuovi mondi, mondi senza confini e con solo orizzonti
davanti a sè. Lui è confinato da chissà quanto tra quattro mura, confinato
in una vita dura e solitaria e preda di una natura bella e spietata. Siamo
così diversi eppure mi sembra che le nostre anime si parlino senza
bisogno di parole, ci scambiamo un sorriso e gli rivolgo solo due parole:
adios, amigo. Accendo la moto, gli volto le spalle e parto verso valle. Il
suo sguardo mi rimarrà a lungo impresso nella mente.
In pochi minuti mi fiondo giù per la strada e imboccato il bivio a
sinistra sono subito nell’immensa piana che accoglie l’ennesima
meraviglia della giornata: la Laguna Colorada. Racchiusa dalle
montagne su di un lato e aperta su di una vasta pianura dall’altro, mi
appare davanti un vasto specchio d’acqua color mattone che si
increspa sotto le folate di vento, dove centinaia di fenicotteri rosa
danzano sulle acque immergendovi il becco in cerca del prezioso cibo
che popola la laguna donandogli questo insolito colore. Ora la pista
sembra quasi non esistere e mi ritrovo a scivolare veloce, fuori dai
solchi delle auto, su di una graniglia color avorio, sicura e stabile. Mi
fermo con gli altri a fare qualche foto, ora siamo a 4.300 m s.l.m. e
dalle indicazioni dell’agenzia dovremmo sostare nei pressi della
laguna, ma l’autista sembra non fare riferimento alla cosa e mi indica
di proseguire sempre dritto sulla strada principale. Riparto in anticipo
sulla jeep mentre alcuni veicoli pesanti che passano sul lato opposto
della spianata suonano il clacson salutandomi con la mano. Ormai
sono esausto, la giornata è stata dura, tanto più che spero presto di
arrivare a destinazione e godermi un po’ di riposo. La strada si fa di
nuovo impegnativa come quella del primo mattino e di nuovo devo
impegnare braccia e cervello per tenere in piedi la moto su di un
percorso ondulato e maledettamente sabbioso. Avanzo tra tratti
percorsi a passo d’uomo e qualche frustata alla schiena che prendo
però volentieri, perché nonostante la fatica è ancora forte la
sensazione di volare ad un passo dal cielo; la pienezza e la serenità
interiori che mi pervadono sono difficili da spiegare. La grandezza e
la perfezione della natura che mi circonda sono così profonde che è
impossibile non credere all’esistenza di un Dio, semplicemente
perché Dio è in tutto questo intorno a me, permea ogni cosa, ogni
pietra, pianta o animale di questo meccanismo perfetto e incredibile.
Sono solo a veleggiare verso il nulla e mi viene da pensare quanto
così lontano dall’Uomo si ci possa sentire così vicino a Dio. Sarà il
blu intenso del cielo che sa di infinito e che si pone a mantello di un
mondo dalle tinte sempre più pastello, avvolto nella luce di un Sole
che va spegnendosi e che lo colpisce dall’angolazione dell’orizzonte.
La jeep con Linda e i ragazzi mi raggiunge e poco dopo ci
fermiamo davanti ad una grande montagna di sale a poca distanza da
una costruzione abitata; siamo nei pressi dell’ennesimo salar d’alta
quota del quale probabilmente non saprò mai nemmeno il nome. La
moto tossisce per qualche istante poi si spegne di nuovo, la riaccendo
e come accaduto prima dà l’impressione di non voler prendere giri.
Insisto più di una volta aumentando il gas lentamente e dopo diversi
tentativi l’ennesima fumata nera mi annuncia che il motore sta
tornando a cantare. Inizio ad avere qualche timore per la carburazione
in quota e la pessima qualità della benzina boliviana che dovrò
introdurre a fine giornata. Spero che il ritorno sui tremila metri e
sull’asfalto risolva in parte il problema. Approfitto della sosta per
scambiare qualche parola con Linda che sta facendo amicizia con gli
altri occupanti della vettura e mi dice che a bordo è tutto ok, così
dopo una bella “sgasata” per pulire il motore mi informo con Doro
sulla strada da seguire e mi rimetto avanti. Nelle sue parole c’è
qualcosa che non mi quadra, mi parla di altri sessanta chilometri circa
e mi chiedo come mai visto che abbiamo già percorso molta più
strada di quella che ci era stata detta in mattinata all’agenzia.
La strada si stringe subito, si fa più compatta e salendo
nervosa aggira il salar da destra, ora il problema non è più la sabbia
sulla quale le ruote non hanno presa, ma le pietre che sbucano
taglienti dal terreno. Tengo il motore su di giri in seconda marcia, e
procedo in piedi sulle staffe tra piccoli salti e contraccolpi della ruota
posteriore. La carraia, perché di questo si tratta, continua a salire e in
pochi istanti mi ritrovo a dominare il salar dall’alto. Attraverso alcuni
guadi di acqua trasparente e d’improvviso mi rendo conto di avere
una sete dannata. Nello specchietto non vedo nessuno. Mi fermo. Mi
guardo intorno. Il rumore del mio motore echeggia nella valle
solitario. Solo ora mi rendo conto di quanto sono stato stupido: per
viaggiare leggero ho scaricato tutto sulla jeep. Non ho acqua, non ho
nè soldi nè documenti, non ho nè carte nè bussola, non ho gli attrezzi
d’emergenza e per questo non saprei cosa fare in caso di foratura.
L’unica cosa sensata che mi ronza nella testa è quella di arrivare a
destinazione il prima possibile. Scruto il cucuzzolo nell’orizzonte
dietro di me e per un attimo mi sembra di vedere la silhouette della
jeep e la polvere alzata dalle ruote. Non mi rendo conto se è un
miraggio dato dalla speranza di non aver sbagliato strada o se è reale,
ma non mi resta che ripartire. Ora il mio sguardo domina la valle da
cima a fondo e non vedo nè paesi nè strade. Ho appena iniziato la
discesa quando la moto entra subito in riserva! Com’è possibile?
Dovrei avere ancora mezzo serbatoio! Probabilmente le marce basse e
la cattiva carburazione dovuta all’altura hanno raddoppiato i consumi
e adesso non mi resta che scendere a valle con il gas al minimo. La
discesa è veloce, qualche curva, un altro guado e tante pietre
acuminate. La testa mi fa male e mi pulsa ininterrottamente, sono
disidratato e sfiancato da un intera giornata di fuori strada in altura,
ho come l’impressione che se mi tirassero giù dalla moto cadrei in
terra come un sacco di patate, ma è solo una sensazione lontana
perché so altrettanto bene che in sella potrei tenere duro fino a notte
fonda con la sola forza di volontà e di sopravvivenza. E’ però proprio
il pensiero della notte fonda che ad un tratto mi assale; e se mi fossi
perso? Se fossi costretto a passare la notte all’addiaccio? Sarei in
grado di sopravvivere? Si fa largo in me il pensiero lubrico di bere
l’acqua dei guadi e cercare riparo dal vento gelido che le tenebre
porteranno in dote. Spazzo via per un attimo le tinte fosche che mi
ottenebrano la mente, all’orizzonte non ci sono paesi in vista, stando
alle indicazioni di Doro non dovrebbero mancare più di dieci
chilometri e penso che se così fosse dovrei di certo vederlo un paese
in mezzo a questo deserto! Continuo a scendere, per lo meno mi costa
poco carburante, ma arrivato in fondo alla discesa so che non posso
fare più affidamento sulla forza di gravità per procedere, e dopo
appena un paio di chilometri mi trovo di fronte un incrocio a T senza
alcuna indicazione. Parcheggio la moto in mezzo all’incrocio e
aspetto guardando in ogni direzione che arrivi un segnale, o ancora
meglio la jeep con Linda e gli altri, sbagliare strada potrebbe essermi
a questo punto fatale. La testa continua a pulsare, vorrei bere, sono
sicuro che se avessi qui uno di quei ruscelli che ho attraversato
poc’anzi ci ficcherei di certo la testa dentro. Sono assorto da questi
pensieri, e dalla speranza di veder arrivare una jeep, quando ad un
tratto il mio sguardo è rapito da un gregge di lama che pascola a poca
distanza. Inizio a camminare verso di loro con il passo pesante dei
miei scarponi e rinchiuso nella mia tuta da motociclista, e come un
miraggio, seduta a poca distanza, appare una india nei suoi abiti
multicolori intenta a custodirli. Le grido qualcosa per attirare la sua
attenzione, poi le pongo la fatidica domanda: <<¿Vallenar?>>
<<¿Donde està el pueblo de Vallenar?>>.
Sembra che non capisca, o meglio farfuglia qualcosa che io non
capisco nascondendosi il viso con la mano. Riprovo, avvicinandomi
sempre più, fino a quando dalla sua voce stridula non riesco a carpire
la parola:
<>……Vicino!! e da che parte?
La ragazza mi indica la mia sinistra. Rimango tra l’incredulo e lo
sbigottito, felice di essere vicino e di non aver sbagliato strada.
Saluto, ringrazio e torno di corsa alla moto. Da quello che segna il
contachilometri manca poco più di un chilometro ai sessanta
preventivati da Doro. Riparto e dopo duecento metri dietro ad una
semicurva ecco comparire per incanto un mucchio di case
spelacchiate e dai camini fumanti.
Sono felice e allo stesso tempo incazzato nero per aver preso
così sotto gamba tutta la situazione, per essermi fidato di un vecchio
pazzo boliviano che si contraddice una parola sì ed una no, e per
colpa sua aver affrontato questa terra di nessuno praticamente in
solitaria e quel che è peggio senza aver nulla per fronteggiare le
emergenze. Il vero paradosso è di essersi affidati ad un’agenzia per
evitare problemi ed aver corso dei rischi che da solo avrei preso di
certo più sul serio proprio per questo! Parcheggio all’ingresso del
paese, ho ancora la testa che mi scoppia e tanta sete, ma almeno ora
so che tra poco arriveranno gli altri e potrò finalmente riposare e
dissetarmi. Noto nel frattempo che a parte qualche bambino, che mi
sorride incuriosito, sembra che la mia presenza non desti particolare
attenzione negli abitanti del pueblo.
Attendendo seduto su di un masso, mentre il sole si fa
prezioso nascondendosi dietro le montagne, rivedo la mia giornata in
rewind: dalla partenza di questa mattina ho percorso 230 chilometri di
cui 184 di piste belle e impossibili dove il vuoto del deserto colmava
più di ogni altra cosa, perché avevo la netta sensazione di vivere un
momento unico e speciale, un momento senza passato nè futuro, dove
essere in nessun luogo era come essere in ogni luogo.
Tutto intorno a me regna la pace. I ragazzi giocano a pallone
nella polvere. I lama ritornano dal pascolo e la sera dipinge la Terra
facendola brillare di colori più veri.