martedì 9 febbraio 2010
¡MALDIDO PUEBLO!
Attenderò quasi due ore prima che la jeep con Linda e gli altri
compagni di viaggio arrivi a destinazione. La mia disperazione interna
nel frattempo non riesce più ad essere quietata dal paesaggio e dalle
passeggiate fatte per ammazzare il tempo; passeggiate durante le quali
inizio a imprecare prima dentro di me e poi via via ad alta voce. Due
lunghe ore durante le quali inizialmente penso che possano aver forato
una gomma, ma che quando il tempo si dilata troppo mi fanno temere
che possa essere capitato qualcosa di più grave, fino a quando da dietro
quella maledetta curva vedo comparire l’inconfondibile profilo della
jeep.
Io e Linda iniziamo da subito un egoistico litigio serrato, lei
preoccupata per la mia incolumità ed io infuriato perché mi hanno
lasciato ore in sofferenza senza nulla da bere e senza nessun altra risorsa.
Ci pensa subito Pedro però a spegnere il fuoco con le sue parole e alla
fine come al solito viene fuori che la colpa è di Doro!
Mi raccontano che in preda a non si sa quale crisi di personalità a metà
percorso ha iniziato a dire che non potevo essere così avanti e che mi ero
di certo perso, al ché il loro suggerimento è stato: andiamo al paese e se
non è là torniamo indietro a cercarlo. A quel punto non si sa in preda a
quale farneticazione o a quale allucinazione da foglie di coca, di sua
spontanea iniziativa è ritornato a ritroso fino a dove ci eravamo lasciati!!
Veniamo alloggiati in una camerata comune dal pavimento e il
tetto in legno, con sei letti, l’atmosfera si stempera in fretta e ho
l’occasione di conversare un po’ con gli altri fino a quando non veniamo
richiamati per cena. Il pasto non è di certo meglio di quello offerto per il
pranzo e ancora una volta servono tutta l’allegria e l’ironia di Pedro per
rallegrare la serata e cementare il gruppo che si è appena creato. Steso un
velo pietoso sul cibo, analizziamo il percorso fatto e ci rendiamo subito
conto che Doro non sta affatto seguendo le direttive dell’agenzia, ma che
anzi procede di sua iniziativa. In mattinata dovevamo infatti fermarci ad
ammirare il deserto di Dalì, ma in realtà non gli è passato per la testa
neanche un istante di farci fare la sosta e ne abbiamo conferma quando
viene a chiederci cosa vogliamo fare l’indomani. “Il deserto Salvador
Dalì? Sono solo sassi, ne vedremo finché volete di pietre in questi
giorni!!” Come?! Sei proprio un vecchio pazzo!! La sommossa è quasi
popolare e lui si affretta a ritirare la proposta appena avanzata di andare
diretti a Uyuni domani mattina. Incalzato dalle nostre rimostranze avanza
la scusa che non abbiamo dormito alla Laguna Colorada perché è troppo
in alto e a causa dell’altura si dorme male, qui invece siamo soltanto a
3.800 metri ed è molto meglio!! Prima che lo linciamo fisicamente oltre
che verbalmente, si affretta addirittura ad addossarmi la colpa dicendo
che ha cambiato strada per venire incontro alle mie esigenze di
motociclista! Sinceramente non mi sembra di aver mai avanzato richieste
e vista la sua patologica volubilità chi mi garantisce che questa strada sia
meglio dell’altra e che il suo non sia solo un modo per tenere il coltello
dalla parte del manico?! Credo che la realtà sia che Doro voglia arrivare
a Uyuni il prima possibile per farsi gli affari suoi e soprattutto che
probabilmente riceva una provvigione se ci porta a dormire in un luogo
piuttosto che in un altro. Il suo comportamento indispone tutto il gruppo
e prima di salutarlo per la buonanotte mettiamo ben in chiaro che domani
vogliamo percorrere quanto stabilito, a costo di dover tornare indietro
fino alla Laguna Colorada.
La notte è stranamente buia, senza luna e senza stelle, il cielo
sembra dipinto con uno strato di catrame ed è inutile la perseveranza che
metto nell’uscire ripetutamente all’aperto per cercare di ammirare le
stelle della volta australe e nel sondare con gli occhi il cielo in cerca
della costellazione della Croce del Sud. Sembra che qualcuno ci abbia
chiusi dentro una grotta buia dove solo il vento può entrare sibilando
indisturbato.
UNDICESIMO GIORNO
La notte è breve e insonne. L’altitudine non mi dà scampo, così
come il sibilo del vento che attraversa gli infissi e le tegole; l’alba inoltre
arriva così presto che non mi par vero quando mi accorgo che
nell’immenso bagliore del mattino sento i ragazzi giocare a pallone e
guardando l’orologio sono solo le cinque!!
Alle otto, dopo essermi rigirato senza pace a lungo nel letto, mi
alzo lasciando gli altri in sonni profondi, dormiveglia o sonni artificiali
da sonnifero, a seconda del proprio credo. Esco in cortile. C’è calma, il
vento non soffia più e i lama pascolano tranquilli in riva ad un ruscello
dalle acque diafane. Osservo per qualche istante Doro che carica la jeep
pronto a rimettersi in viaggio, poi mi decido a caricare la moto e provo
ad accenderla: fa due sbuffi, un gorgoglìo, un rantolo e poi si
ammutolisce. Sono inutili tutti i tentativi di rianimarla, fino a quando la
batteria non si soffoca con un suono gracchiante del motore. Non capisco
cosa possa essere e sulle prime vado in cerca di carburante, operazione
che inizialmente sembra più dura del previsto poi, bussando di casa in
casa, ne trovo dieci litri presso un negozio di alimentari dove un
bambino dagli occhi neri e dallo sguardo curioso mi fissa senza remore;
il commerciante mi dice che dovrebbero essere sufficienti perché oggi
troveremo diversi villaggi sul nostro cammino.
Verso nel serbatoio il carburante che è assolutamente incolore e
avrà al massimo 80 ottani; provo ad accendere sperando di sentire
nuovamente il suono del motore, ma sembra che il problema non sia
nemmeno questo. La mattinata si fa sempre più incandescente e il Sole
inizia a lanciare i suoi dardi infuocati sulle nostre teste. Con l’aiuto di
Pedro e Linda smonto tutti i filtri esistenti, che vengono puliti e rimontati
a regola d’arte, poi colleghiamo la batteria della jeep con i fili che
riusciamo a reperire. Sono talmente ridicoli che per poco non fondono e
comunque fanno il loro dovere, ma niente! Ci diamo un gran da fare
mentre Doro rimugina e le ragazze svizzere iniziano a dare segni di
insofferenza; solo ora mi rendo conto che in mezzo ai chili di ferro che
mi sono portato da casa per le emergenze manca l’unica cosa che sarebbe
realmente utile: la chiave per smontare le candele. Inoltre sembra che in
questo maldido pueblo non si trovi niente di utile alla mia causa, il
telefono più vicino è a trenta minuti di strada in jeep ed inizio a pensare
che non potrà che andare sempre peggio. Il motore sembra ingolfato,
sembra che sia maledetto dall’insieme mortale che lo ha avvolto, e penso
proprio che si sia presentato tutto insieme il conto del viaggio di ieri:
polvere fine, aria rarefatta, surriscaldamento e benzina pessima. Doro ci
consiglia di attendere il padrone di casa, che è uscito questa mattina
all’alba per andare a sacrificare un lama, ci rassicura che è un meccanico
e che oltre tutto ha un pick-up; se quando arriva non potrà aiutarci a far
ripartire la moto se non altro potrà portarci a Uyuni caricandola dietro il
furgone. Non mi fido, ma non ho scelta; non posso trattenere in questo
luogo maledetto altre persone contro la loro volontà e ormai il limite
della sopportazione per alcuni componenti del gruppo è stato superato.
Ci salutiamo. Mi dispiace perdere la compagnia di Pedro e confinare
Linda con me in questo luogo di sventura.
Dopo la rincorsa iniziale verso Santiago credevo di aver saldato
il conto con la malasorte, ma invece eccoci qui, immobilizzati a sole tre
ore di viaggio da Uyuni, impantanati ad un passo dal sogno di
attraversare il deserto di sale più vasto del mondo sulle proprie ruote.
Attendiamo minuti vuoti, che ben presto si trasformano in ore, l’arrivo
del fantomatico meccanico e quando si ripresenta a casa con un lama
squartato dietro al cassone il Sole è ormai alto nel cielo. Gli spiego che
servirebbe forse la chiave per smontare la candela, ma che probabilmente
la cosa migliore da fare sia caricare la moto sul pick-up e andare
direttamente a Uyuni. Lui però pare non sentire ragioni, dice di essere
senza freni e di non poterci portare. Continua a sparire dicendo di andare
in cerca della chiave per le candele senza poi fare più ritorno al nostro
capezzale, tanto più che ad un certo punto mi decido ad andarlo a cercare
e lo ritrovo in casa che mangia e parla apparentemente di affari con un
altro uomo.
A questo punto mi altero, sono sul punto di perdere le staffe; ci
sta la sfortuna, ci sta l’errore umano, ma di essere presi in giro da quattro
boliviani con le pezze al culo questo no! Inizio a girare per il paese
imprecando e busso a tutte le porte in cerca di qualcuno che ci possa
portare a Uyuni insieme alla moto. Il cortile nel frattempo si anima delle
persone che arrivano per il pranzo e giungono qui con le jeep dei tour
operator. Busso ad una porta davanti alla quale sta in bella vista un
furgone, spiego la situazione e tratto brevemente con il proprietario, poi
lui come niente fosse spara 300 dollari! Lo mando secco a quel paese e
me ne vado di fretta. Vedendomi arrivare alquanto infuriato Linda decide
di fare un tentativo in prima persona riuscendo a persuaderlo fino a 150
dollari. Sono comunque tanti, troppi in proporzione al reddito medio, ma
me ne voglio andare di qui, voglio tenere il mio sogno ancora vivo e
accetto. Sono quasi esultante perché assaporo il momento in cui questa
brutta avventura sarà alle spalle, sto per raccogliere le nostre cose
quando nella faccenda si intromettono i padroni della casa dove abbiamo
dormito e soprattutto si inserisce la vecchia che credevamo essere la
madre del “meccanico” e che invece solo ora capiamo esserne la moglie.
Si parlano in dialetto indigeno e non capiamo una parola del discorso,
ma dopo la conversazione tra di loro il nostro amico cambia idea e ora
per il servizio chiede ben 400 dollari, millantando la scusa che la moto è
grossa e che in precedenza non aveva capito bene! A questo punto siamo
prigionieri di noi stessi, prigionieri di un pueblo maldido che sembra fare
di tutto per metterci i bastoni tra le ruote e solo ora ci divengono chiari i
loro piani: vogliono la nostra moto! E’ da stamattina che ci girano
intorno e se non l’avessi ricontrollata, smontata e rimontata due volte
solo da quando mi sono svegliato, direi che l’hanno messa fuori uso loro
nella notte. Probabilmente non è così, ma come si dice “l’occasione fa
l’uomo ladro” ed averla qui in cortile con la prospettiva che ci resti li
stuzzica a sufficienza per fare di tutto perché vada così.
Il caldo si è fatto ora soffocante e voglio andarmene di qui ad
ogni costo, butto lo sguardo verso quel soggetto che abbiamo capito
essere il cognato e che da ore fissa noi e la moto con un sorriso ebete
stampato in volto. Osservandolo meglio mi rendo conto che non sta
ridendo, ma è semplicemente la sua espressione, una espressione che gli
deforma il volto come in una eterna smorfia di felicità dolorante.
Mi affretto allora ad abbozzare una domanda:
<<¿Quieres comprarla?>>
La mia domanda sembra spiazzarli, gettarli nella confusione, e rosi dalla
loro brama di possedere questo simbolo di progresso avanzato si
interrogano.
<<¿Quanto?>> chiede la vecchia prendendo in mano la situazione.
La butto lì: <<500 dollari>>, senza nemmeno sapere se sia una cifra che
possa o meno essere presa in considerazione e senza sapere a cosa altro
potrei appellarmi per non dover abbandonare la moto e perdere tutto in
un solo colpo. Sembra che la proposta li alletti ma non rispondono,
qualcuno si muove, alcuni vanno e vengono.
Il piazzale che solo poche ore fa era deserto è ora gremito di
persone e noi siamo indubbiamente diventati l’attrazione del giorno.
Mentre loro pensano tessiamo, trame e discorsi con i viandanti. Un
ragazzo boliviano di Oruro, chiaramente benestante, si intromette e mi
dice senza giri di parole che se gli faccio avere la moto ad Oruro lui è
disposto a pagarla molto di più. Gli faccio notare con un sorriso che se la
moto si accendesse continuerei certamente ben oltre la sua città e che se
avessi altro modo di portarla fuori da lì lo avrei già fatto. Nel frattempo
abbiamo già parlato con diversi autisti che si dicono disposti a dare un
passaggio a noi e ai nostri bagagli fino a Uyuni.
È pomeriggio inoltrato quando prendo una decisione che mi
stringe il cuore: l’avventura in moto ad ogni modo finirà qui. È bene
rendersi conto nelle sfide che la vita ci offre quando queste diventano
impossibili, e quando è il caso di alzare bandiera bianca per evitare
peggiori epiloghi. Con le ultime forze e in preda agli ultimi sbuffi di
rabbia smonto la moto: carene, serbatoio, sella, centralina e infine con un
calcio ben assestato faccio volare la targa a terra sulla polvere. Mi sento
al centro di un ring, gli spettatori mi tengono il fiato sul collo, ma non
sento il peso della scena e sto per far calare il sipario con onore, con un
uscita degna di rispetto: lo scheletro inerme della moto rimarrà qui come
monumento, a testimonianza di una storia che forse qualcuno racconterà
di tanto in tanto ai viandanti. La storia degli stranieri che giunti qui
dovettero abbandonare i loro sogni di viaggio libero e solitario, ma allo
stesso modo nessuno però si dimenticherà che quello straniero si è
cannibalizzato la moto portando con sè tutto il necessario a farla
funzionare di nuovo. Guardo la targa nella polvere, la raccolgo e poi
alzando lo sguardo lo porto verso l’orizzonte; il viaggio è ancora lungo
ed è giunta l’ora di rimettersi in cammino.
Carichiamo le parti della moto sulla jeep insieme ai bagagli,
l’autista che ci ospita è cordiale e se avesse potuto avrebbe caricato
anche la moto, ma provare ad issare una moto di oltre due quintali sul
portapacchi della jeep non mi sembrava il caso. Ad ogni modo avevo già
deciso, ed ho notato poi come anche lui dopo le solite parole in dialetto
rivoltegli dai padroni di casa non sembrava più così convinto di poterci
aiutare fino a quel punto. Stiamo per salire a bordo e partire diretti a
Uyuni quando accade l’ultimo colpo di scena: sento la voce stridula della
vecchia che riapre una trattativa per loro mai chiusa e per me mai aperta.
<<¿Un descuento señor?>>
<<¿Quanto?>> chiedo istantaneamente con sorpresa.
<>. Venti cosa? Venti percento? Venti dollari? Venti
boliviani?
A questo punto la vecchia specifica con voce insicura che sarebbe
disposta a sborsare 480 dollari. Vorrei essere pieno di quell’orgoglio
irremovibile che a volte sarebbe il giusto rimedio, ma pervaso dal sorriso
beffardo di chi si è forse piegato ma non spezzato finisco per accettare.
Ora sono io che conduco il gioco, butto tutte le parti che avevo smontato
nella polvere a fianco della moto, e ci liberiamo di quanto non più
necessario. Regalo le chiavi inglesi e l’attrezzatura per la manutenzione
al ragazzo di Oruro che ora mi spalleggia strigliandoli perché si
sbrighino dopo averci fatto perdere molto tempo. Infine arrivano i soldi:
non so se aspettarmi dollari o boliviani, ma quando mi ritrovo in mano
esattamente la cifra richiesta in banconote americane, anche di grosso
taglio, per un attimo mi chiedo da dove provengano. Li alzo al cielo
fingendo di essere un esperto di banconote false e dopo uno sguardo
sommario faccio un cenno affermativo con il capo e le infilo in tasca.
Il fuoristrada gira l’angolo, sono passate circa venti ore da
quando siamo arrivati qui, un tempo relativamente breve di una prigionia
che è però apparsa eterna.
Lasciamo il ricordo del pueblo maldido nella polvere dietro di
noi e siamo di nuovo in viaggio. La strada ha ripreso a fluire e insieme a
lei il sangue nelle mie vene; sto lasciando un pezzo di cuore e un grande
sogno in quella nuvola di polvere che si perde nell’orizzonte, ma nessuno
potrà mai togliermi la gioia provata in questa settimana di viaggio ed in
particolare le sensazioni provate ieri. Non riesco a distogliere lo sguardo
dall’orizzonte per oltre un’ora, non riesco a smettere di fissare gli
sconfinati paesaggi che scorrono dal finestrino, poi ad un tratto la pista
diventa più battuta e i villaggi si fanno frequenti. Qui sono arrivate le
compagnie minerarie con il loro progresso: strade, telefono, luce. Ma
cosa chiedono in cambio di tutto questo? Anime. Questo è il prezzo che
queste genti pagheranno. Le vite di queste persone non saranno più le
stesse. I padri lavoreranno per il progresso e perderanno il tempo che ora
possono spendere per stare con i loro figli. I bambini smetteranno sempre
prima di giocare spensierati nella polvere per rincorre i sogni dell’età
moderna, sogni che si sciolgono al sole come la neve. Videogiochi
prenderanno il posto dei sassi tirati alle greggi. Le madri si vestiranno di
abiti moderni che soppianteranno quelli tradizionali. Prima o poi
smetteranno anche di venerare la Pachamama per venerare qualche altro
Dio e quel che più mi turba è che tutto questo sarà chiamato progresso!
La jeep che ci ha raccolto è occupata da due personaggi
singolari: c’è un ragazzo americano in giro da tre mesi che sogna di
finire il suo viaggio a zonzo per il Sudamerica al carnevale di Rio de
Janeiro e poi c’è una ragazza tedesca di Berlino dagli occhi azzurri e
dallo sguardo vispo, che ha con sè un sacco di cappelli e non smette mai
di fare domande all’autista. L’ultima ora e trenta che ci separa da Uyuni
la passiamo a raccontarci le rispettive avventure.
Uyuni è una cittadina in fermento, c’è il mercato per le vie
principali, c’è via vai di autobus, di macchine e persone; mi rendo conto
solo ora che sono bastati pochi giorni nel nulla per non essere più
abituati alla chiassosa umanità. Ci facciamo lasciare dal nostro autista
davanti all’ufficio locale della Colque Tour, dove si dimostrano molto
più comprensivi di chi ci ha abbandonato a Vallenar, e avendo un’altra
notte e due pasti pagati, nonché l’escursione nel salar, ci sistemano
presso un hotel convenzionato. All’autista come ringraziamento di averci
riportato alla vita regaliamo gli stivali da moto di Linda. In un primo
momento sembra non capire, poi tolto dall’impaccio e chiarito che si
tratta di un omaggio ci regala il più bel sorriso che abbiamo ricevuto da
quando siamo giunti in terra boliviana.
Scruto l’orizzonte dalla finestra della camera, il cielo si sta
tingendo di indaco e il brusio della strada si spande come un’omelia
nell’aria immobile della sera. Scruto lontano, in cerca del Salar, so che è
la fuori e percepisco la sua presenza. Ho sognato a lungo di sentire i suoi
perfetti esagoni di sale scivolare sotto alle mie ruote, di cavalcarlo in
ogni direzione come un capitano di vascello folle che percorre i mari in
lungo e in largo in cerca del giusto vento. Mi rammarico pensando che
con un po’ di fondo asfaltato in più il giorno precedente, e una bella
pulita alle candele, la moto avrebbe di certo percorso i restanti chilometri
di viaggio senza problemi, ma la vita è fatta anche di sconfitte e dopo le
disavventure iniziali non potevamo certamente restare ancora prigionieri
di un villaggio ostile sperduto nel deserto. Guardo la cartina e mi rendo
conto che la strada che ci separa dalla meta finale è ancora tanta e che a
occhio e croce siamo solo a metà del viaggio. Ora ripenso alla notte buia
là fuori, ai compagni incontrati lungo il viaggio e che ora sono sparsi nel
Mondo, in Cile, in Brasile, o come Pedro e gli altri a pochi chilometri da
qui; viaggiatori che come schegge impazzite calcano con le loro orme i
sentieri del mondo.
DODICESIMO GIORNO
La mattina ci accoglie con il brusio della strada, fuori è una
splendida giornata di sole e le nostre cose sparpagliate per la stanza sono
lì a ricordarmi la battaglia di ieri. Usciamo per le strade che vanno
animandosi e cambiamo subito una parte dei dollari in moneta locale. Per
qualche istante trattengo il respiro mentre il commesso scruta le
banconote ricevute per la moto, poi le infila nel cassetto iniziando a
contare la controvaluta mentre io posso ritornare a respirare; i soldi della
moto sono buoni. Fatto il cambio attraversiamo tutto il paese a piedi e
raggiungiamo la via adibita a terminal dei bus, dove possiamo prenotare
il nostro trasporto notturno per Potosì. L’aver abbandonato la moto ci
permette ora cose impensabili fino a ieri, come poter viaggiare di notte
recuperando così preziosi giorni di viaggio, e vista la prima parte di
percorso inizialmente non calcolata, anche la deviazione per Potosì che
era stata a lungo in forse fino a ieri, è ora tornata una certezza.
Facciamo un giro nei colori del mercato coperto con i suoi stretti
corridoi, poi alle undici puntuali saliamo sugli angusti sedili posteriori di
un pick-up da sette posti diretti al salar. Alla guida c’è un ultracentenario
con la coppola in testa ed io ho la viva impressione che ci stiamo
preparando per l’ennesima giornata di passione. La prima tappa è il
cimitero dei treni, un’area appena fuori dall’abitato dove in passato
furono abbandonati alcuni locomotori e diversi vagoni; si tratta per lo più
di apparecchiature corrose dal tempo e dalla ruggine e cannibalizzate
delle loro parti “tecnologiche”. A mio avviso non c’è granché da vedere
e si potrebbe pure fare a meno della visita, se non fosse per l’immagine
della linea ferroviaria che è rimasta al suo posto a correre con le sue linee
parallele dritta all’orizzonte, fino ad essere schiacciata tra bianche nubi
che si rincorrono nella cornice di un cielo blu china e il colore
giallognolo della terra ricoperta di sofferente vegetazione.
Gruppi di turisti si aggirano eccitati tra questi monumenti di noncuranza
in cerca di qualche foto suggestiva, io, dopo qualche scatto, provo un
senso di tristezza nel cercare di immortalare questo simbolo di
decadimento e mi concentro sui binari che paiono correre verso
l’infinito. Muoviamo finalmente verso il salar lungo una strada di
polvere; all’interno della jeep oltre a me, Linda e l’autista, ci sono tre
argentini e due messicani che intavolano tra di loro discorsi farneticanti
su film, letteratura e politica. Non si degnano nemmeno di rivolgerci la
parola e mi devo mordere un labbro per non sbranarli quando deridono la
politica italiana. Non che io sia la persona adatta a difendere l’italica
repubblica, ma sentirci deridere in termini di corruzione da messicani e
soprattutto da argentini mi pare un po’ troppo! Mi trattengo
dall’incalzare i loro commenti, voglio rimanere nell’anonimato,
probabilmente ci hanno scambiato per brasiliani, come accade spesso del
resto, e lasciarli credere che non capiamo nulla dei loro discorsi sarà di
certo più interessante che prendervi parte.
Il bagliore in lontananza ci annuncia che il salar è vicino.
Il Salar de Uyuni è il più grande deserto di sale del mondo,
12.000 chilometri quadrati di sale ad oltre 3.600 m s.l.m., tutti lisci come
il tavolo di un biliardo! Gli scienziati stimano che contenga 10 miliardi
di tonnellate di sale e di queste meno di 25mila vengono estratte
annualmente. É formato approssimativamente da 11 strati salini con
spessori che variano tra i 2 e 10 metri, lo strato superficiale ha uno
spessore di 10 metri e rappresenta da solo un terzo delle riserve di litio
del pianeta, nonché importanti quantità di potassio, boro e magnesio. Gli
studi dicono che circa 40.000 anni fa facesse parte del lago Minchin, un
gigantesco lago preistorico; quando il lago si prosciugò si formarono i
due attuali laghi Poopó e Uru Uru e i due deserti salati del Salar de
Coipasa e il gigantesco Salar de Uyuni. Secondo le leggende Inca nel
deserto si trovano gli Ojos de Salar (occhi del deserto di sale) che in
passato inghiottivano le carovane. Si tratterebbe di buchi nella superficie
dai quali esce l’acqua sottostante e che in certe condizioni di luce sono
quasi invisibili all’occhio diventando così pericolose trappole naturali.
Una volta entrati nel deserto le strade scompaiono, solo le deboli
scie dei pneumatici restano a testimonianza di una possibile rotta, ma
volendo è solo la fantasia a decidere la direzione……Ojos del Salar
permettendo. Sono rinchiuso nel mio angolo di jeep, scruto fuori dal
finestrino e mi assale un senso di soffocante claustrofobia. I discorsi dei
ragazzi mi giungono come un fastidioso gracchiare; doveva essere un
grande giorno per me e invece mi sento triste più che mai. Guardo
l’autista, con i suoi settant’anni suonati da un pezzo, che probabilmente
vive il fatto di percorrere il salar come una routine quotidiana, senza più
provare l’emozione del contatto e dell’assoluto che questa terra dovrebbe
trasmettere, e dando l’impressione di viverla come due sposi che
continuano la vita insieme senza sapere più se si amano ancora. Io
sono qui, rinchiuso in questa specie di carcere volontario, e soffro
perché le proiezioni della mia mente mi vedono correre libero in moto
a fianco della jeep, mi vedono aprire il gas e volare via con il vento in
faccia verso il bianco accecante dell’assoluto!
Impieghiamo oltre un’ora per attraversare tutto il deserto in
lunghezza, un tempo che vivo in religioso silenzio osservando
l’infinito nella grande distesa bianca, di tanto in tanto osservo
l’autista e non so se invidiarlo per la sua condizione di pilota oppure
se essere triste per lui. Arrivati dall’altro lato del salar, a fare da
guardia, c’è la grossa bocca di un vulcano sovrastata da cupi
cumulonembi che si innalzano minacciosi al cielo. Il cono vulcanico è
ricoperto da una fitta peluria verdastra, a dire il vero è la prima erba
veramente verde che vediamo da qualche giorno a questa parte,
mentre la bocca del vulcano si pavoneggia invece nelle sue sfumature
di grigio, ocra e terra bruciata.
Pranziamo in una casa bassa ai bordi del deserto insieme ad
altre carovane di turisti. In cuor mio ho ancora la timida speranza di
rincontrare Pedro per poter fare quattro risate e scambiarci gli
indirizzi, cosa che è sfuggita nella foga di Vallenar, ma sembra che di
loro non ci sia più traccia sulla nostra strada. Con le spalle al vulcano
osservo la vastità del salar che si estende a perdita d’occhio, e la
sorpresa più grossa è rendersi conto che in questo angolo di visuale,
grazie al residuo di qualche acquazzone, abbiamo la fortuna di
assistere al gioco di specchi che si viene a creare quando arriva la
stagione delle piogge. Il salar in quel periodo si trasforma in un
immenso specchio d’acqua che, grazie alla bassa profondità e al
fondale bianco, riflette il cielo e la luce creando un effetto tutto
particolare. Davanti a noi ci sono due cieli azzurri orlati di nuvole
bianche speculari e nel mezzo, che galleggiano sulla linea
dell’orizzonte, osserviamo due jeep che procedono a carovana come
sospese nel nulla.
Quando ci rimettiamo sulla via del ritorno il sole è cocente e la luce
quanto mai accecante. Prima di lasciare definitivamente il salar facciamo
rotta verso Isla del Pescado, detta anche Incahuasi (casa dell’Inca), che è
un isolotto di roccia all'interno del salar la cui forma ricorda un pesce. La
sua composizione è un misto fra sedimenti calcarei marini e materiale
vulcanico, e raggiunge i 102 metri di altezza dalla superficie del deserto
di sale; nell'isola in passato furono rinvenuti 7 giacimenti archeologici
della cultura Tiahuanaco, 2 rovine Inca, 30 caverne, 12 gallerie
naturali ed un bosco di cactus.
Mi sdraio sulla ruvida e dura superficie del salar. Chiudo gli
occhi. Sento il sole che mi penetra e mi attraversa il corpo con i suoi
dardi di fuoco. Vorrei essere un tutt’uno con questa distesa bianca,
spandere la mia anima all’infinito per poterla abbracciare tutta.
Spando il mio respiro e lascio che si allarghi dentro di me senza
confini, ora mi vedo a volare in alto e a scrutare un orizzonte bianco e
piatto, sotto di me migliaia di piastrelle di sale esagonali sono
perfettamente incastrate in un gigantesco puzzle. Mentre espello l’aria
stringo gli occhi ancora più forte e d’un tratto vedo tutto questo
mondo da mille prospettive: sono Sole, sono Terra, sono falco e sono
infine il vento che soffia libero. L’odore del sale mi penetra le narici,
il ruvido terreno mi gratta la pelle e il sale brucia nelle ferite come il
ghiaccio sulla pelle, riapro gli occhi e sono di nuovo Io. È l’ora di
andare.
La jeep scivola di nuovo verso Uyuni. Sono un po’ meno
triste, mi intrometto improvvisamente in un commento dei nostri
compagni di viaggio su alcuni usi argentini e per un attimo cala un
silenzio tombale. Uno di loro rompe l’attesa chiedendoci da dove
veniamo, poi riprende il discorso chiedendosi come mai non hanno
capito che eravamo italiani e come mai non capivano cosa dicevamo
parlando tra di noi: mi viene un unico singolo pensiero……stupid
white man.
Mi rimetto a scrutare gli ultimi scampoli di deserto con il sole
che si abbassa sull’orizzonte, a poca distanza da noi scorre una croce
con legata una bandiera israeliana sdrucita, è il ricordo di un’anima
che sarà Sole, terra, falco, deserto e vento per sempre.