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martedì 9 febbraio 2010

ROTOLANDO VERSO NORD

La strada corre in un saliscendi di dolci pendii a pochi chilometri dall’oceano, presenza che percepiamo ma che tuttavia non riusciamo a scorgere, e la vegetazione mi ricorda in qualche modo la macchia mediterranea che cresce bassa sui terreni rocciosi. C’è poco traffico, provo un senso di libertà e gioia infinita di essere finalmente in movimento con le nostre forze, sensazioni che però rischiano subito di essere offuscate dai pochi litri di benzina messi nel serbatoio e dal fatto che non c’è ombra di un benzinaio da nessuna parte! Per questo siamo obbligati a lasciare la strada principale diretta a Valparaiso e a dirigerci verso l’abitato di Casablanca. La carreggiata è ora stretta e ritorta e il paesaggio intorno sembra un’immensa oasi di verde immersa nei vigneti. Nel pueblo di Casablanca fortunatamente troviamo un benzinaio, facciamo il pieno sotto gli occhi incuriositi di due ragazzini, ma per la batteria non c’è niente da fare ci dicono di provare altrove e dobbiamo ripartire ancora a spinta; riprendiamo così il cammino, decisi ad andare il più lontano possibile da qui prima che faccia buio. Di nuovo diretti verso Valparaiso la strada torna ad essere ampia, con due corsie per senso di marcia e con grandi foreste di pini e di legnami pregiati a farle da contorno. Improvvisamente, per un errore causato dalla mia imprudenza di non volermi fermare a controllare la cartina, ci troviamo ingolfati tra caroselli di auto, lanterne semaforiche e incroci: siamo finiti in centro a Viña del Mar alle sei del pomeriggio!! Anche se il corpo reclama ormai riposo non è in questo labirinto di grattacieli, negozi e persone a piedi che ci appare come una Miami del Sudamerica il luogo dove vogliamo fermarci, e con l’aiuto di qualche passante ci divincoliamo di nuovo verso la Panamericana. Corriamo ancora per un po’ liberi dal traffico e ci lasciamo alle spalle le vette che dividono Santiago dal territorio argentino; attraversiamo il Puente del Inca, e rimirando in lontananza la prestigiosa vetta dell’Aconcagua, la montagna più alta del continente sudamericano, sfrecciamo con il vento sulla faccia. La velocità di crociera che teniamo supera di poco i 100km/h, sia per rispetto dei limiti che per tenuta fisica di mezzo e passeggeri; ritmo che è comunque di tutto rispetto e che al termine della giornata ci permetterà di esserci allontanati già 260 chilometri da San Antonio. Alle 19,30 di sera, quando il sole sta spegnendo i suoi bollori tramontando sull’oceano, decidiamo di porre fine a questo rocambolesco primo giorno di viaggio in moto. Siamo nel cuore della IV regione, la prossima città, La Serena, dista ancora 240 chilometri, non vale la pena correre il rischio di viaggiare al buio e optiamo così per dormire nel piccolo pueblo di Los Vilos. Per la notte affittiamo una cabaña provvista di una grande veranda con vista mare e per la prima volta dal nostro arrivo ci concediamo un po’ di lusso, quasi a voler festeggiare la ritrovata libertà. Al crepuscolo specchiamo i nostri occhi nel mare grigio e immobile, pieni di speranza per le giornate a venire. La strada verso nord è ancora lunga. QUINTO GIORNO Vorremmo partire all’alba, ma il sonno arretrato che ci trattiene e i preparativi per caricare la moto ci rubano più tempo del previsto; lasciamo Los Vilos e i suoi cordiali abitanti solo alle nove del mattino. La giornata ci accoglie con un pallido grigiore che strada facendo lascerà il posto ad un sole caldo ed implacabile. Prendiamo subito sotto gamba il problema dei rifornimenti non rabboccando il serbatoio alla partenza, ma ben presto però ci accorgiamo dell’errore fatto. Il nastro d’asfalto si srotola come montagne russe in un paesaggio arido e pietroso, fatto di bassi arbusti e di infiniti saliscendi, qua e là tuttavia non mancano abitazioni isolate e interi greggi di capre che attraversano la strada incuranti delle auto. Da quando abbiamo la moto il viaggio ha cambiato completamente faccia, certo i chilometri da percorrere sono tantissimi e forse saremo costretti a modificare l’itinerario iniziale, ma ora possiamo aggredire la strada puntando all’orizzonte; ora come i gladiatori sentivano mordere la lama della spada, noi sentiamo il vento e il sole mordere sulla pelle. Come a voler confermare lo stato di grazia in cui galleggiamo, a metà mattinata accade il primo miracolo: dopo diverse decine di chilometri percorsi a velocità ridotta, e discese percorse in folle per risparmiare carburante, finalmente sulla sommità dell’ennesima salita vediamo il cartello che indica un chilometro al distributore. Raggiungiamo la cima ed eccolo là, in fondo alla discesa che ci appare come un puntino all’orizzonte, quando il motore si ammutolisce di colpo! È così, completamente a secco e a motore spento, che arriviamo di gran spinta davanti alla pompa, con il benzinaio che ci osserva con occhi straniti e interrogativi. Fatto il pieno accade il secondo miracolo: la moto riparte senza bisogno di spinte. La strada fatta ha ricaricato la batteria a sufficienza e da qui ad immergerci nel caos di La Serena è un battito d’ali, o meglio un colpo di gas. Ci lasciamo la città velocemente alle spalle senza rimpianti, con un occhio di riguardo però ai cartelli segnaletici dei distributori di benzina che da qui in avanti sembrano indicarne di media uno ogni 250 chilometri. Il prossimo paese abitato indicato sulla cartina è distante, non siamo però che all’inizio della giornata e con in volto una smorfia di fatica mista a gioia puntiamo decisi sul pueblo di Vallénar. Dopo aver superato l’ennesimo posto di blocco penso a come sia curioso il fatto che nessuno abbia mai nemmeno accennato a fermarci, io se fossi al posto loro e vedessi arrivare una moto stracarica lo farei di certo anche solo per curiosità! Comunque meglio così, visto che a livello assicurativo non è che siamo proprio in regola al 100%...... La strada ora si inerpica tra montagne di terra ferrosa e sassi, percorriamo un tratto caratterizzato da ampi tornanti che ci portano su di un altopiano dominato da bassa vegetazione e cactus; stiamo entrando in una terra di miniere e condor. Le curve sono intervallate da infiniti rettilinei che costeggiano lunghe linee elettriche ed una ferrovia fantasma che ha tutta l’aria di essere uscita da un film stile vecchio west. Ora il cielo, che questa mattina era grigio e sembrava minacciare pioggia, si è fatto limpido e di un incredibile color lapislazzulo; non sarà a caso che questa è l’unica zona al mondo, insieme all’Afghanistan, dove vengono estratte le magnifiche pietre che racchiudono il colore del cielo nelle viscere della terra. La temperatura dell’aria intanto, lontano dal mare, si è fatta incandescente. Arriviamo nella periferia di Vallénar alle due del pomeriggio e insieme al rifornimento facciamo anche una sosta per il pasto in un ristorante per camionisti e gente di passaggio; pochi pesos per portate a menù fisso e per un tuffo nel Cile autentico, quello che strappa con il sudore la vita alle sue pietre e ai suoi immensi paesaggi desertici. Abbiamo percorso circa 400 chilometri in cinque ore, una media che non sarebbe niente male se non dovessimo recuperare diversi giorni di viaggio e soprattutto quasi 2.000 chilometri di strada…… Ripartiamo rigenerati dalla sosta, siamo già entrati nella regione di Atacama ed anche se il vero e proprio deserto, che le dà il nome, è ancora lontano, il paesaggio non scherza affatto: lunghi rettilinei cesellati di sassi e coronati da picchi in lontananza si susseguono per quasi 200 chilometri ancora. Per tutto il cammino non facciamo che incontrare croci a bordo strada che ricordano i tanti, troppi, figli che questa terra ha voluto richiamare a sé. Mentre procediamo verso il nulla a gas aperto noto che in cielo non ci sono nemmeno più i voli dei rapaci a tenerci compagnia, mi chiedo se sia per l’ora di caldo infernale o se non sia per l’inospitalità estrema di queste terre. Che siano veramente soltanto i fantasmi dei morti che la strada ha reclamato come pegno ad abitare queste terre desolate? È con questo interrogativo che ci lanciamo nella lunga discesa rettilinea che ci porta a Copiapò, oasi di case e cemento in mezzo al nulla. I chilometri percorsi dalla mattina sono ormai seicento e la stanchezza inizia realmente a farsi sentire, ma non possiamo e non vogliamo mollare ora, c’è ancora parecchia luce in cielo e dobbiamo approfittarne per fare un altro po’ di strada. Diamo un’occhiata alla cartina, la prossima città è alla nostra portata e potremmo sostare di nuovo in riva al mare……ripartiamo velocemente. La verde vallata cittadina si dissolve in fretta alle nostre spalle scomparendo tra montagne che paiono dipinte e lungo strade di sabbia che si perdono all’orizzonte. Il deserto ci mostra adesso uno dei suoi tanti volti e mentre “l’aeropuerto Desierto de Atacama” ci sfila a fianco mostrando la lingua nera della sua pista, il paesaggio si fa di sabbia pesante e piatta. A bordo strada non ci sono nemmeno più le pietre, solo spazi sconfinati che si perdono tra terra e cielo. Guardo dritto davanti a me mentre stringo con decisione il manubrio della moto cercando di tenerla diritta nonostante le forti raffiche di vento ci facciano ondeggiare di lato. Sento Linda che si stringe a me, non so cosa stia pensando di questa avventura che si fa sempre più fantastica e dura, spero che come me si lasci ipnotizzare dai paesaggi magnifici e allo stesso tempo crudeli che stanno passando imperturbabili sotto ai nostri occhi; le ore passate in moto sono tante e senza l’appiglio della mente che vola libera in questa cartolina che ci corre intorno, potrebbero trasformarsi in una tortura certamente immeritata. Il mio sguardo si perde ora poche centinaia di metri davanti a me, in quel luogo della non realtà dove l’asfalto per effetto della calura si trasforma in una lingua d’argento, in un ruscello d’acqua che il miraggio illudendoci trasforma in asfalto al nostro incedere. Per qualche istante mi chiedo se sia solo un’illusione ottica o se sia reale invece il nostro viaggio verso il niente, verso una terra che non c’è e che viene creata solo dalla nostra mente e dall’illusione dei sensi. Quasi a voler confermare i miei folli pensieri, la voglia di aria fresca e di allontanarci dalla morsa del caldo, ci fa risvegliare in una strada che costeggia sinuosa il mare con un corollario di pietre a fare da cornice tra lei e l’orizzonte. L’alito dell’Oceano Pacifico ha rinfrescato l’aria e le raffiche di vento che per lunghi tratti hanno messo a dura prova i muscoli e la stabilità della moto sembrano ora definitivamente placate. Il sole sta calando sull’orizzonte e la luce soffusa, con la complicità dell’aria limpida, colora di tinte soffocate e calde le montagne che ci proteggono dagli spazi sconfinati dell’interno. I falchi sono tornati a volare nel cielo e noi, come il mondo che ci circonda, ci prepariamo a passare la notte. Stiamo affrontando le ultime curve che ci separano dal pueblo di Chañaral. Alla fine della giornata il contachilometri segnerà 740 chilometri percorsi. Nella notte calda dell’estate australe ho l’impressione di stare nuovamente sospeso a lungo tra sogno e realtà: …..è’ una notte di mezza estate, l’aria che entra dalla finestra aperta non è sufficiente a spegnere il caldo ardente che il sole ha posato sulla terra durante il giorno. Ascolto i rumori della notte, lontani: il trillo dei grilli, il rumore delle macchine e di qualche televisore acceso che rimbomba nell’oscurità. Una notte illuminata dalla flebile luce di una luna che appare anch’essa stanca. Non so se sia a causa del caldo afoso che mi ritrovo in uno stato di spossatezza vegetale, uno stato in cui il corpo galleggia in una immobilità assoluta ma dove invece la mente si esibisce in voli pindarici e piroette. Inizio a fantasticare su come sarebbe bello un giorno riuscire a compiere un viaggio in moto attraverso il Sudamerica. Mi rivedo prendere in mano le redini della mia vita e dire si può fare, si può aprire il cassetto che racchiude i sogni e iniziare a rincorrere quelli che vi sono assopiti all’interno. Inizio così a volteggiare lungo quegli spazi sconfinati che hanno ispirato scrittori e condottieri: sulle impervie vette andine, lungo le coste frastagliate e inospitali dell’oceano, tra città mitologiche, laghi leggendari, deserti di sale che si perdono nell’orizzonte e popolazioni che sembrano non aver dimenticato il linguaggio della Madre Terra. Mi rivedo a cavallo del mio destriero di ferro che arranco lungo strade infinite dai contorni sfocati, lungo una strada che sembra non avere mai fine, diretto su a nord verso quel puntino segnato sulla cartina che in lingua antica significa “l’Ombelico del Mondo” e poi ancora più su verso la città perduta degli Inca ad ammirare dall’alto, con lo sguardo di un condor, la bruma mattutina che si dirada lasciando così che la Pachamama venga finalmente baciata dal Sole e che il cerchio della creazione si richiuda nella magia di un nuovo inizio. SESTO GIORNO Mi risveglio, per qualche minuto fatico a riconoscere le mura spoglie che mi circondano, sento il ticchettio dell’acqua scendere dal rubinetto del bagno, guardo Linda che dorme al mio fianco e di colpo mi ritrovo nella realtà, una realtà fantastica che va oltre l’immaginario del sogno; davanti a noi chilometri di dura strada da sentire sotto ai piedi. Ieri sera eravamo al limite della resistenza fisica, ci siamo accontentati di cenare a pochi passi dall’hotel in un ristorante “popolare” con filetto di pesce ai ferri, birra e patatine fritte; evento che mi ha fatto riflettere ancora di più sullo stato di viaggiatori liberi che stiamo sperimentando. I nostri precedenti viaggi non si potevano certo definire “tradizionali”, ma avere a disposizione un mezzo come la moto che implica libertà, mettendoti a tu per tu con la natura e con le difficoltà che essa presenta e permettendoti allo stesso tempo di non avere tappe predefinite da mezzi pubblici o di dover sottostare ai ricatti di qualche tassista, crea una miscela esplosiva di situazioni, eventi e piacevoli incontri del tutto imprevisti con una realtà locale altrimenti difficile da raggiungere. Oggi, memori dell’esperienza di ieri, alle 8 siamo già in partenza. Il cielo è piatto e plumbeo e, ci chiediamo cosa ci riserverà la giornata. Siamo ora al limite della III regione, la “Regione di Atacama”, che è caratterizzata da rilievi perpendicolari alla costa che danno vita a vallate trasversali. In questa regione le Ande raggiungono un’altitudine media di 5.000 m s.l.m. e vi si trova anche il rilievo più alto del Cile, il vulcano inattivo Ojos del Salado con i suoi 6.893 m s.l.m. Tra qualche decina di chilometri entreremo nella terra di nessuno che prende il nome di “Deserto di Atacama” e che per uno strano scherzo geo-politico fa però parte della II regione, quella di Antofagasta. Scrutiamo la cartina per capire dove riusciremo a spingerci prima che il sole tramonti. Raggiungere la meta di San Pedro de Atacama in serata sembra eccessivamente ottimistico, ma potremo puntare alla città di Calama dove si trova la miniera di rame a cielo aperto più grande al mondo e che rimane pressappoco un centinaio di chilometri prima di San Pedro; se dovesse andare male potremmo comunque fermarci ad Antofagasta che si trova a “soli” 500 chilometri da qui. In mezzo, tra noi e la nostra meta nel cuore delle Ande, c’è l’incognita del deserto; quando nella nostra discesa verso Santiago l’autobus lasciò la città di Antofagasta era già il crepuscolo e non abbiamo nessuna immagine a ricordo di questa tratta se non quella delle stelle che brillano nella notte limpida. Le informazioni che abbiamo sembrano indicare che in tutti questi chilometri troveremo solo un paese, alias distributore, situato esattamente a metà strada. Non ci resta che partire e viaggiare fino a quando il sole non si quieterà basso all’orizzonte; ed è così senza certezza alcuna di dove ci fermeremo a dormire questa notte che ci avviamo, e allo stesso modo senza certezze lasciamo la strada principale e infiliamo le ruote della moto lungo una mulattiera che costeggia il mare e si addentra nel Parque Nacional Pan de Azucar. La pista è una strada di terra battuta verso il nulla, i primi chilometri costeggiano spiagge bianche e rilucenti come diamanti, questo nonostante il cielo che le ricopre abbia il colore del piombo. Qui venivano riversati i resti delle miniere e delle fabbriche di salnitro e per questo, nonostante il colpo d’occhio fantastico e surreale, non è consigliato stendersi a prendere il sole. In realtà la prima impressione che per qualche istante abbiamo avvolti dall’aria fresca del mattino con il cielo posto a mantello scuro sopra le nostre teste e le montagne brulle e inospitali a fare da contorno, è di essere finiti sulla superficie di un pianeta ostile alla vita. Superato l’impatto emotivo ci addentriamo meravigliati tra montagne che sembrano fatte di cartapesta, poi di nuovo discendiamo verso spiagge abitate da pescatori dove decine di pellicani si danno da fare sonnecchianti in cerca di cibo. Apprendiamo dai cartelli del parco che nell’isoletta appena al largo della costa vive una numerosa colonia di pinguini di Humboldt. Ad un occhio distratto potrebbe sfuggire che tra questa sabbia e queste rocce crescano piante e vivano piccoli animali ma, anche se sembra impossibile, grazie ai rilievi che trattengono l’umidità dell’oceano questo parco è decisamente più ricco di forme di vita delle aree circostanti. Sulla strada siamo completamente soli e procedo a bassa velocità per godere del momento, incurante di tutta la strada che ci aspetta, quando ad un tratto la carreggiata di terra battuta si fa di graniglia e inizia a salire nel cuore delle montagne, verso un cielo che dal grigio muta sempre di più verso l’azzurro. Il fondo sabbioso merita attenzione nella guida, ma non è di difficile percorrenza e proseguiamo così per quasi venti chilometri in mezzo ad un mondo che sembra disegnato. Facciamo una sosta per ammirare questo paesaggio irreale, racchiuso tra montagne che non sembrano altro che pennellate di marrone in tutte le sue sfumature, e ad un tratto senza più il rumore del motore, un silenzio totale, dove neanche il vento sembra arrivare con il suo eterno sibilo, cala etereo ed inaspettato su di noi. È il momento di guida e di viaggio più emozionante vissuto fino ad ora, e pensare che non era nemmeno in programma; chissà come sarebbe campeggiare una notte qui con la Luna che disegna contorni sfocati ed il silenzio della notte a schiacciare i pensieri su questa sabbia ruvida di millenni. Pensieri che scivolano via con il rombo del motore che riprende voce, ancora poche centinaia di metri e siamo di nuovo sulla Ruta-5 lanciati come proiettili nel cuore del Deserto di Atacama, giustamente considerato uno dei territori più aridi del mondo. Ora siamo come una scheggia impazzita diretta verso l’ignoto, non tanto per la velocità che si mantiene sempre sui 100 km/h di media, ma per tutto quello che ci sta scorrendo intorno. Percorriamo rettilinei di oltre dieci chilometri su di un asfalto nero come la pece tagliato in due dal bianco accecante della linea di mezzeria. Incrociamo soltanto lunghi autoarticolati che ci suonano in segno di saluto e qualche autobus che si annuncia con la scritta Santiago che ci fa l’occhiolino sul display anteriore. Percorriamo oltre 150 chilometri di veloci curvoni e rettilinei infiniti, racchiusi da una cornice di montagne color creta e sottesi ad un cielo che si è fatto eccezionalmente limpido. Come pronosticato facciamo l’unica sosta possibile per il carburante a metà deserto presso “Agua Verde”, anche se non riesco a spiegarmene il nome visto che di acqua non sembra ce ne sia traccia. Il vento soffia forte, tanto che già da qualche chilometro dovevamo procedere con la moto inclinata per le forti raffiche laterali. Chiediamo lumi al benzinaio che non ci dà però speranza, ci dice che qui è sempre così e che anzi nel pomeriggio solitamente il vento aumenta molto di intensità. C’è un caldo infernale e siamo a metà del percorso che ci divide da Antofagasta, dove considerando la media dovremmo arrivare verso l’una del pomeriggio. Ora siamo nel pieno di un’area arida delimitata ad ovest dalle montagne della cordigliera della costa, che raggiungono mediamente 2.000 m s.l.m. con punte oltre 3.000 m, e dalle pendici della Cordigliera Domeyko a sud est, un ramo occidentale della Cordigliera delle Ande che raggiunge i 4.114 m s.l.m. con il Cerro Quimal. In questa area, sperduto da qualche parte, sappiamo che si trova anche l’osservatorio astronomico più grande del mondo. Riempito il serbatoio non ci resta che ripartire lungo gli infiniti rettilinei spazzati dal vento, con la speranza di annusare presto di nuovo l’aria fresca del mare. Scruto il paesaggio intorno a me mentre percorriamo questa meravigliosa follia della natura. Le montagne sembrano levigate da piogge torrenziali e le forme sembrano aver accolto in passato morene glaciali; osservo tutto questo con il pensiero che qui non piove da secoli! Probabilmente al tempo della creazione prima, e durante le ere glaciali poi, la natura qui doveva avere forme e aspetti ben diversi da ora; considerazioni che fanno riflettere sulla grandezza della vita e sull’importanza dell’attimo in cui viviamo, nonostante sulla scala del tempo sia solo un puntino invisibile. È bello sentirsi parte di tutto questo e ancor di più viverlo in piena autonomia e libertà. La lingua d’argento che si allunga di fronte a noi continua a vomitare asfalto senza tregua. Nel miraggio dell’orizzonte diventa persino difficile distinguere la realtà dall’immaginazione e dal desiderio di ciò che vorremmo veder comparire davanti ai nostri occhi, tanto che non so se il cartello che ci troviamo davanti sia reale o immaginario: Antofagasta 40Km. Iniziamo a ridiscendere verso il mare lungo un rettilineo che sembra non finire mai e ad un certo punto veniamo attratti da un cartello segnaletico che indica: “Mano del Desierto”. A poche centinaia di metri dalla strada principale, posta su di una leggera collinetta, vediamo una scultura di dimensioni quanto meno inquietanti e decidiamo di dare un’occhiata da vicino: l’opera è una mano di pietra tagliata all’altezza del polso che esce dalla terra nuda e arida verso un cielo di lapislazzulo e giace riarsa dal sole e spazzata dai venti. Nella sua povertà tecnica la trovo una cosa geniale quasi quanto la scintilla divina che Dio sta trasmettendo all’Uomo nella creazione del Michelangelo, non tanto per la bellezza estetica o la cura dei particolari, ma piuttosto nella sua forma archetipica di comunicare un messaggio. Credo che se dovessi rappresentare la terra il primo giorno della creazione la rappresenterei esattamente così; peccato che la poesia sia rovinata da scritte ingenerose e dal gran odore di piscio che aleggia nella zona....qualcuno probabilmente ha scambiato la scultura per un pisciatoio pubblico. Riprendiamo una discesa che sembra non finire mai ed alla fine di un rettilineo infinito ci rendiamo conto di essere passati dalle vette dell’Eden nel giorno della creazione alla bocca dell’inferno nel giorno dell’apocalisse. Il cartello indica “La Negra”, siamo giunti nella zona industriale alle porte di Antofagasta. Il caldo è infernale, in particolar modo per l’ora, fumi generati da acidi e da solventi si levano minacciosi dalle caldaie delle fabbriche e a tratti oscurano il cielo che appare triste e ammorbato; la terra tutta intorno è impregnata per chilometri da un colore verde-azzurrognolo che sa tanto più di morte che di vita. Vogliamo fuggire da qui al più presto, andare il più lontano possibile da questo angolo di mondo morente e appestato, tanto che non ci curiamo nemmeno del distributore che incrociamo passando dritti a tutta velocità e trattenendo il respiro. Prima della guerra del Pacifico (1879) Antofagasta era una provincia della Bolivia. Fu occupata dalle truppe del Cile il 14 febbraio 1879 e dopo la battaglia di Topater il 23 febbraio di quello stesso anno vi fu annessa, anche se il trattato ufficiale di annessione fu però firmato solo nel 1904. L'attività economica prevalente è quella mineraria e rappresenta circa il 65% del prodotto interno lordo della regione. Dalla fondazione della Codelco (Corporacion Nacional del Cobre de Chile) è drasticamente aumentata l'estrazione del rame; nella regione si trovano infatti le principali miniere del paese fra le quali il giacimento di Chuquicamata, la più grande miniera a cielo aperto del pianeta. Fra gli altri minerali estratti vi sono l'argento, il molibdeno, l’oro, il litio, il ferro, il carbonato di calcio, lo iodio e il quarzo. Alla vista di questo inferno la fame si è per qualche istante dileguata e nonostante sia mezzogiorno decidiamo di rinunciare alla deviazione per passare in città a mangiare; proseguiamo dritti diretti a Calama. Le condizioni atmosferiche sono estreme, noi siamo quasi allo stremo e per poco non ci accorgiamo nemmeno che sul cartello che stiamo sfilando a bordo strada c’è scritto “Tropico del Capricornio”, faccio inversione rapida per una foto ricordo, quando mai ci ricapiterà di passare da qui……in moto! L’aria è di fuoco e mi rendo conto solo ora che probabilmente fino agli ultimi giorni del nostro viaggio non rivedremo più il mare. La nostra sosta mancata ci ha rimesso a rischio carburante, adesso proseguiamo a velocità ridotta e iniziamo ad avere paura che questa volta non saremo così fortunati da arrivare al distributore. Arrivati nell’abitato di Baquedano lo percorriamo in lungo e in largo; tra le sue poche e basse case possiamo ammirare i treni che infaticabili trasportano i frutti della terra di miniere, una caserma dei Carabineros del Chile e svariati ristoranti, ma nemmeno un distributore. Decidiamo che se proprio dobbiamo rimanere a piedi tanto meglio se siamo idratati e stomaco pieno! Sostiamo in un bar lungo la strada per un panino e una bottiglia di acqua fresca; dopo aver attraversato il deserto di Atacama tutto d’un fiato è il minimo che possiamo meritarci! La sosta è portatrice di nuove amicizie: conversiamo allegramente con due coppie di brasiliani in moto che stanno facendo ritorno a San Pedro Atacama e poi di nuovo, attraversata l’Argentina, in Brasile. La loro curiosità iniziale è stata accesa dalla mia moto che da queste parti non è così comune e la conversazione concitata si protrae diversi minuti in una lingua inventata al momento che comprende nell’ordine vocaboli di spagnolo, portoghese e italiano. Non nascondono di essere entusiasti del fatto che mi sono spedito una moto dall’Italia al Sudamerica e ancora di più perché da loro una moto del genere, seppur vecchia, avrebbe un valore di certo maggiore a quello del mercato italiano, da quello che mi dicono nell’ordine di almeno cinque grandezze. Diventiamo in un istante la loro icona di motociclisti provetti e saputo del nostro problema carburante si offrono di scortarci fino a Calama. Il distributore fortunatamente lo incontriamo a soli 26 chilometri da dove ci trovavamo, esattamente al crocevia della strada che si dirama verso Iquique al nord e verso Calama all’interno. Il vento laterale è sempre più forte e fastidioso, ora però con il serbatoio e lo stomaco pieni e scortati da due moto d’appoggio, corriamo dritti e senza timori verso la fine di un’altra giornata faticosa e densa di emozioni. Arrivati alle porte di Calama salutiamo i nostri nuovi amici con la speranza di rincontrarci a San Pedro e puntiamo dritti verso la collina che scorgiamo in lontananza; a fare da sfondo alla cittadina c’è infatti l’immenso complesso industriale della miniera di Chuquicamata. La strada è un lungo rettilineo in salita a due corsie per senso di marcia che porta diretta all’ingresso di quello che dicono essere il più grande buco a cielo aperto creato dall’uomo. Immense montagne artificiali accompagnano le ultime centinaia di metri prima del freddo cancello che sbarra l’ingresso agli estranei. Chiediamo informazioni alla reception dove ci comunicano che fino a lunedì non sono più previste visite; in tutto questo trambusto avevamo per un attimo dimenticato che oggi è sabato. Ci consultiamo rapidamente, di restare due giorni in città non se ne parla nemmeno, il Sole è ancora alto nel cielo e San Pedro dista “soltanto” altri cento chilometri; la scelta è d’obbligo e ci lanciamo di nuovo in discesa lungo il rettilineo che abbiamo appena percorso in senso contrario e dove la moto sembrava accusare non poco l’aria rarefatta dall’altura. Questi ultimi chilometri di giornata sono percorsi tutti su di un vasto altipiano a oltre 3.000 m .s.l.m., stretti nei vestiti a causa dell’aria che inizia a farsi fresca puntiamo dritti verso l’orizzonte con il Sole alle spalle che allunga la nostra ombra davanti a noi e si fa sempre più basso. Non ci curiamo più tanto di un paesaggio noioso e piatto, che comunque dobbiamo ripercorrere lunedì per ritornare in visita alla miniera, poi a circa quindici chilometri dalla meta, dopo un paio di curve in salita, valichiamo una piccola corona di montagne e davanti a noi si apre una discesa folle verso un altopiano che sembra dipinto e che nei suoi colori pastello si sta vestendo a sera…...è il Salar de Atacama. Entriamo in San Pedro quando ormai sta facendo buio. Il piccolo paese è ormai divenuto una rinomata meta turistica, grazie alla sua posizione perfetta rispetto a numerose attrazioni della natura e alla sua vicinanza con il confine argentino e boliviano, ma notiamo come conservi intatte strade caratteristiche in terra battuta e graziose case in adobe. Vaghiamo in cerca di alloggio come fantasmi tra le vie e quasi come un inaspettato miraggio incrociamo improvvisamente i nostri amici brasiliani in arrivo anche loro dopo un giretto a Calama. Li seguiamo fino all’ingresso del camping Takha Takha, dove sembrano essere di casa e noi troviamo alloggio in un bungalow a prezzo più che ragionevole. Dopo quasi un’ora dall’arrivo ed una doccia rigenerante sento ancora il corpo vibrare per tutto il tempo in cui sono stato seduto in sella, controllo il contachilometri e neanche a farlo apposta il parziale odierno è praticamente identico a quello di ieri: 741 chilometri, che sommati ai 740 di ieri e ai 260 del primo giorno, fanno 1.741 chilometri macinati nelle lande desolate dei deserti cileni in poco più di 48 ore!! Andiamo a cena con gli amici brasiliani che prima di uscire mi offrono Mate dalla loro bombilla. Passeremo tutta la sera a raccontarci storie dei nostri rispettivi paesi e quando a fine serata facciamo ritorno all’alloggio passeggiando sotto ad un cielo australe nero come il carbone e tempestato di stelle luccicanti come diamanti, mi chiedo a lungo cosa cavolo ci siamo detti visto che loro parlavano quasi solo portoghese e noi spagnolo mischiato all’italiano!