La strada corre in un saliscendi di dolci pendii a pochi chilometri
dall’oceano, presenza che percepiamo ma che tuttavia non riusciamo a
scorgere, e la vegetazione mi ricorda in qualche modo la macchia
mediterranea che cresce bassa sui terreni rocciosi. C’è poco traffico,
provo un senso di libertà e gioia infinita di essere finalmente in
movimento con le nostre forze, sensazioni che però rischiano subito di
essere offuscate dai pochi litri di benzina messi nel serbatoio e dal fatto
che non c’è ombra di un benzinaio da nessuna parte! Per questo siamo
obbligati a lasciare la strada principale diretta a Valparaiso e a dirigerci
verso l’abitato di Casablanca. La carreggiata è ora stretta e ritorta e il
paesaggio intorno sembra un’immensa oasi di verde immersa nei vigneti.
Nel pueblo di Casablanca fortunatamente troviamo un benzinaio,
facciamo il pieno sotto gli occhi incuriositi di due ragazzini, ma per la
batteria non c’è niente da fare ci dicono di provare altrove e dobbiamo
ripartire ancora a spinta; riprendiamo così il cammino, decisi ad andare il
più lontano possibile da qui prima che faccia buio.
Di nuovo diretti verso Valparaiso la strada torna ad essere ampia,
con due corsie per senso di marcia e con grandi foreste di pini e di
legnami pregiati a farle da contorno. Improvvisamente, per un errore
causato dalla mia imprudenza di non volermi fermare a controllare la
cartina, ci troviamo ingolfati tra caroselli di auto, lanterne semaforiche e
incroci: siamo finiti in centro a Viña del Mar alle sei del pomeriggio!!
Anche se il corpo reclama ormai riposo non è in questo labirinto di
grattacieli, negozi e persone a piedi che ci appare come una Miami del
Sudamerica il luogo dove vogliamo fermarci, e con l’aiuto di qualche
passante ci divincoliamo di nuovo verso la Panamericana.
Corriamo ancora per un po’ liberi dal traffico e ci lasciamo alle
spalle le vette che dividono Santiago dal territorio argentino;
attraversiamo il Puente del Inca, e rimirando in lontananza la prestigiosa
vetta dell’Aconcagua, la montagna più alta del continente sudamericano,
sfrecciamo con il vento sulla faccia. La velocità di crociera che teniamo
supera di poco i 100km/h, sia per rispetto dei limiti che per tenuta fisica
di mezzo e passeggeri; ritmo che è comunque di tutto rispetto e che al
termine della giornata ci permetterà di esserci allontanati già 260
chilometri da San Antonio. Alle 19,30 di sera, quando il sole sta
spegnendo i suoi bollori tramontando sull’oceano, decidiamo di porre
fine a questo rocambolesco primo giorno di viaggio in moto. Siamo nel
cuore della IV regione, la prossima città, La Serena, dista ancora 240
chilometri, non vale la pena correre il rischio di viaggiare al buio e
optiamo così per dormire nel piccolo pueblo di Los Vilos. Per la notte
affittiamo una cabaña provvista di una grande veranda con vista mare e
per la prima volta dal nostro arrivo ci concediamo un po’ di lusso, quasi
a voler festeggiare la ritrovata libertà. Al crepuscolo specchiamo i nostri
occhi nel mare grigio e immobile, pieni di speranza per le giornate a
venire. La strada verso nord è ancora lunga.
QUINTO GIORNO
Vorremmo partire all’alba, ma il sonno arretrato che ci trattiene e
i preparativi per caricare la moto ci rubano più tempo del previsto;
lasciamo Los Vilos e i suoi cordiali abitanti solo alle nove del mattino.
La giornata ci accoglie con un pallido grigiore che strada facendo lascerà
il posto ad un sole caldo ed implacabile. Prendiamo subito sotto gamba il
problema dei rifornimenti non rabboccando il serbatoio alla partenza, ma
ben presto però ci accorgiamo dell’errore fatto. Il nastro d’asfalto si
srotola come montagne russe in un paesaggio arido e pietroso, fatto di
bassi arbusti e di infiniti saliscendi, qua e là tuttavia non mancano
abitazioni isolate e interi greggi di capre che attraversano la strada
incuranti delle auto. Da quando abbiamo la moto il viaggio ha cambiato
completamente faccia, certo i chilometri da percorrere sono tantissimi e
forse saremo costretti a modificare l’itinerario iniziale, ma ora possiamo
aggredire la strada puntando all’orizzonte; ora come i gladiatori
sentivano mordere la lama della spada, noi sentiamo il vento e il sole
mordere sulla pelle. Come a voler confermare lo stato di grazia in cui
galleggiamo, a metà mattinata accade il primo miracolo: dopo diverse
decine di chilometri percorsi a velocità ridotta, e discese percorse in folle
per risparmiare carburante, finalmente sulla sommità dell’ennesima salita
vediamo il cartello che indica un chilometro al distributore.
Raggiungiamo la cima ed eccolo là, in fondo alla discesa che ci appare
come un puntino all’orizzonte, quando il motore si ammutolisce di
colpo! È così, completamente a secco e a motore spento, che arriviamo
di gran spinta davanti alla pompa, con il benzinaio che ci osserva con
occhi straniti e interrogativi. Fatto il pieno accade il secondo miracolo: la
moto riparte senza bisogno di spinte. La strada fatta ha ricaricato la
batteria a sufficienza e da qui ad immergerci nel caos di La Serena è un
battito d’ali, o meglio un colpo di gas.
Ci lasciamo la città velocemente alle spalle senza rimpianti, con
un occhio di riguardo però ai cartelli segnaletici dei distributori di
benzina che da qui in avanti sembrano indicarne di media uno ogni 250
chilometri. Il prossimo paese abitato indicato sulla cartina è distante, non
siamo però che all’inizio della giornata e con in volto una smorfia di
fatica mista a gioia puntiamo decisi sul pueblo di Vallénar. Dopo aver
superato l’ennesimo posto di blocco penso a come sia curioso il fatto che
nessuno abbia mai nemmeno accennato a fermarci, io se fossi al posto
loro e vedessi arrivare una moto stracarica lo farei di certo anche solo per
curiosità! Comunque meglio così, visto che a livello assicurativo non è
che siamo proprio in regola al 100%...... La strada ora si inerpica tra
montagne di terra ferrosa e sassi, percorriamo un tratto caratterizzato da
ampi tornanti che ci portano su di un altopiano dominato da bassa
vegetazione e cactus; stiamo entrando in una terra di miniere e condor.
Le curve sono intervallate da infiniti rettilinei che costeggiano lunghe
linee elettriche ed una ferrovia fantasma che ha tutta l’aria di essere
uscita da un film stile vecchio west. Ora il cielo, che questa mattina era
grigio e sembrava minacciare pioggia, si è fatto limpido e di un
incredibile color lapislazzulo; non sarà a caso che questa è l’unica zona
al mondo, insieme all’Afghanistan, dove vengono estratte le magnifiche
pietre che racchiudono il colore del cielo nelle viscere della terra. La
temperatura dell’aria intanto, lontano dal mare, si è fatta incandescente.
Arriviamo nella periferia di Vallénar alle due del pomeriggio e
insieme al rifornimento facciamo anche una sosta per il pasto in un
ristorante per camionisti e gente di passaggio; pochi pesos per portate a
menù fisso e per un tuffo nel Cile autentico, quello che strappa con il
sudore la vita alle sue pietre e ai suoi immensi paesaggi desertici.
Abbiamo percorso circa 400 chilometri in cinque ore, una media che
non sarebbe niente male se non dovessimo recuperare diversi giorni di
viaggio e soprattutto quasi 2.000 chilometri di strada…… Ripartiamo
rigenerati dalla sosta, siamo già entrati nella regione di Atacama ed
anche se il vero e proprio deserto, che le dà il nome, è ancora lontano, il
paesaggio non scherza affatto: lunghi rettilinei cesellati di sassi e
coronati da picchi in lontananza si susseguono per quasi 200 chilometri
ancora. Per tutto il cammino non facciamo che incontrare croci a bordo
strada che ricordano i tanti, troppi, figli che questa terra ha voluto
richiamare a sé. Mentre procediamo verso il nulla a gas aperto noto che
in cielo non ci sono nemmeno più i voli dei rapaci a tenerci compagnia,
mi chiedo se sia per l’ora di caldo infernale o se non sia per l’inospitalità
estrema di queste terre. Che siano veramente soltanto i fantasmi dei
morti che la strada ha reclamato come pegno ad abitare queste terre
desolate?
È con questo interrogativo che ci lanciamo nella lunga discesa
rettilinea che ci porta a Copiapò, oasi di case e cemento in mezzo al
nulla. I chilometri percorsi dalla mattina sono ormai seicento e la
stanchezza inizia realmente a farsi sentire, ma non possiamo e non
vogliamo mollare ora, c’è ancora parecchia luce in cielo e dobbiamo
approfittarne per fare un altro po’ di strada. Diamo un’occhiata alla
cartina, la prossima città è alla nostra portata e potremmo sostare di
nuovo in riva al mare……ripartiamo velocemente. La verde vallata
cittadina si dissolve in fretta alle nostre spalle scomparendo tra montagne
che paiono dipinte e lungo strade di sabbia che si perdono all’orizzonte.
Il deserto ci mostra adesso uno dei suoi tanti volti e mentre “l’aeropuerto
Desierto de Atacama” ci sfila a fianco mostrando la lingua nera della sua
pista, il paesaggio si fa di sabbia pesante e piatta. A bordo strada non ci
sono nemmeno più le pietre, solo spazi sconfinati che si perdono tra terra
e cielo. Guardo dritto davanti a me mentre stringo con decisione il
manubrio della moto cercando di tenerla diritta nonostante le forti
raffiche di vento ci facciano ondeggiare di lato. Sento Linda che si
stringe a me, non so cosa stia pensando di questa avventura che si fa
sempre più fantastica e dura, spero che come me si lasci ipnotizzare dai
paesaggi magnifici e allo stesso tempo crudeli che stanno passando
imperturbabili sotto ai nostri occhi; le ore passate in moto sono tante e
senza l’appiglio della mente che vola libera in questa cartolina che ci
corre intorno, potrebbero trasformarsi in una tortura certamente
immeritata. Il mio sguardo si perde ora poche centinaia di metri davanti a
me, in quel luogo della non realtà dove l’asfalto per effetto della calura si
trasforma in una lingua d’argento, in un ruscello d’acqua che il miraggio
illudendoci trasforma in asfalto al nostro incedere. Per qualche istante mi
chiedo se sia solo un’illusione ottica o se sia reale invece il nostro
viaggio verso il niente, verso una terra che non c’è e che viene creata
solo dalla nostra mente e dall’illusione dei sensi. Quasi a voler
confermare i miei folli pensieri, la voglia di aria fresca e di allontanarci
dalla morsa del caldo, ci fa risvegliare in una strada che costeggia
sinuosa il mare con un corollario di pietre a fare da cornice tra lei e
l’orizzonte. L’alito dell’Oceano Pacifico ha rinfrescato l’aria e le raffiche
di vento che per lunghi tratti hanno messo a dura prova i muscoli e la
stabilità della moto sembrano ora definitivamente placate. Il sole sta
calando sull’orizzonte e la luce soffusa, con la complicità dell’aria
limpida, colora di tinte soffocate e calde le montagne che ci proteggono
dagli spazi sconfinati dell’interno. I falchi sono tornati a volare nel cielo
e noi, come il mondo che ci circonda, ci prepariamo a passare la notte.
Stiamo affrontando le ultime curve che ci separano dal pueblo di
Chañaral. Alla fine della giornata il contachilometri segnerà 740
chilometri percorsi.
Nella notte calda dell’estate australe ho l’impressione di stare
nuovamente sospeso a lungo tra sogno e realtà:
…..è’ una notte di mezza estate, l’aria che entra dalla finestra
aperta non è sufficiente a spegnere il caldo ardente che il sole ha posato
sulla terra durante il giorno. Ascolto i rumori della notte, lontani: il trillo
dei grilli, il rumore delle macchine e di qualche televisore acceso che
rimbomba nell’oscurità. Una notte illuminata dalla flebile luce di una
luna che appare anch’essa stanca. Non so se sia a causa del caldo afoso
che mi ritrovo in uno stato di spossatezza vegetale, uno stato in cui il
corpo galleggia in una immobilità assoluta ma dove invece la mente si
esibisce in voli pindarici e piroette. Inizio a fantasticare su come sarebbe
bello un giorno riuscire a compiere un viaggio in moto attraverso il
Sudamerica. Mi rivedo prendere in mano le redini della mia vita e dire si
può fare, si può aprire il cassetto che racchiude i sogni e iniziare a
rincorrere quelli che vi sono assopiti all’interno. Inizio così a volteggiare
lungo quegli spazi sconfinati che hanno ispirato scrittori e condottieri:
sulle impervie vette andine, lungo le coste frastagliate e inospitali
dell’oceano, tra città mitologiche, laghi leggendari, deserti di sale che si
perdono nell’orizzonte e popolazioni che sembrano non aver dimenticato
il linguaggio della Madre Terra. Mi rivedo a cavallo del mio destriero di
ferro che arranco lungo strade infinite dai contorni sfocati, lungo una
strada che sembra non avere mai fine, diretto su a nord verso quel
puntino segnato sulla cartina che in lingua antica significa “l’Ombelico
del Mondo” e poi ancora più su verso la città perduta degli Inca ad
ammirare dall’alto, con lo sguardo di un condor, la bruma mattutina che
si dirada lasciando così che la Pachamama venga finalmente baciata dal
Sole e che il cerchio della creazione si richiuda nella magia di un nuovo
inizio.
SESTO GIORNO
Mi risveglio, per qualche minuto fatico a riconoscere le mura
spoglie che mi circondano, sento il ticchettio dell’acqua scendere dal
rubinetto del bagno, guardo Linda che dorme al mio fianco e di colpo mi
ritrovo nella realtà, una realtà fantastica che va oltre l’immaginario del
sogno; davanti a noi chilometri di dura strada da sentire sotto ai piedi.
Ieri sera eravamo al limite della resistenza fisica, ci siamo
accontentati di cenare a pochi passi dall’hotel in un ristorante “popolare”
con filetto di pesce ai ferri, birra e patatine fritte; evento che mi ha fatto
riflettere ancora di più sullo stato di viaggiatori liberi che stiamo
sperimentando.
I nostri precedenti viaggi non si potevano certo definire “tradizionali”,
ma avere a disposizione un mezzo come la moto che implica libertà,
mettendoti a tu per tu con la natura e con le difficoltà che essa presenta e
permettendoti allo stesso tempo di non avere tappe predefinite da mezzi
pubblici o di dover sottostare ai ricatti di qualche tassista, crea una
miscela esplosiva di situazioni, eventi e piacevoli incontri del tutto
imprevisti con una realtà locale altrimenti difficile da raggiungere.
Oggi, memori dell’esperienza di ieri, alle 8 siamo già in
partenza. Il cielo è piatto e plumbeo e, ci chiediamo cosa ci riserverà la
giornata. Siamo ora al limite della III regione, la “Regione di Atacama”,
che è caratterizzata da rilievi perpendicolari alla costa che danno vita a
vallate trasversali. In questa regione le Ande raggiungono un’altitudine
media di 5.000 m s.l.m. e vi si trova anche il rilievo più alto del Cile, il
vulcano inattivo Ojos del Salado con i suoi 6.893 m s.l.m. Tra qualche
decina di chilometri entreremo nella terra di nessuno che prende il nome
di “Deserto di Atacama” e che per uno strano scherzo geo-politico fa
però parte della II regione, quella di Antofagasta. Scrutiamo la cartina
per capire dove riusciremo a spingerci prima che il sole tramonti.
Raggiungere la meta di San Pedro de Atacama in serata sembra
eccessivamente ottimistico, ma potremo puntare alla città di Calama
dove si trova la miniera di rame a cielo aperto più grande al mondo e che
rimane pressappoco un centinaio di chilometri prima di San Pedro; se
dovesse andare male potremmo comunque fermarci ad Antofagasta che
si trova a “soli” 500 chilometri da qui. In mezzo, tra noi e la nostra meta
nel cuore delle Ande, c’è l’incognita del deserto; quando nella nostra
discesa verso Santiago l’autobus lasciò la città di Antofagasta era già il
crepuscolo e non abbiamo nessuna immagine a ricordo di questa tratta se
non quella delle stelle che brillano nella notte limpida. Le informazioni
che abbiamo sembrano indicare che in tutti questi chilometri troveremo
solo un paese, alias distributore, situato esattamente a metà strada. Non
ci resta che partire e viaggiare fino a quando il sole non si quieterà basso
all’orizzonte; ed è così senza certezza alcuna di dove ci fermeremo a
dormire questa notte che ci avviamo, e allo stesso modo senza certezze
lasciamo la strada principale e infiliamo le ruote della moto lungo una
mulattiera che costeggia il mare e si addentra nel Parque Nacional Pan
de Azucar. La pista è una strada di terra battuta verso il nulla, i primi
chilometri costeggiano spiagge bianche e rilucenti come diamanti, questo
nonostante il cielo che le ricopre abbia il colore del piombo. Qui
venivano riversati i resti delle miniere e delle fabbriche di salnitro e per
questo, nonostante il colpo d’occhio fantastico e surreale, non è
consigliato stendersi a prendere il sole. In realtà la prima impressione che
per qualche istante abbiamo avvolti dall’aria fresca del mattino con il
cielo posto a mantello scuro sopra le nostre teste e le montagne brulle e
inospitali a fare da contorno, è di essere finiti sulla superficie di un
pianeta ostile alla vita. Superato l’impatto emotivo ci addentriamo
meravigliati tra montagne che sembrano fatte di cartapesta, poi di nuovo
discendiamo verso spiagge abitate da pescatori dove decine di pellicani
si danno da fare sonnecchianti in cerca di cibo. Apprendiamo dai cartelli
del parco che nell’isoletta appena al largo della costa vive una numerosa
colonia di pinguini di Humboldt. Ad un occhio distratto potrebbe
sfuggire che tra questa sabbia e queste rocce crescano piante e vivano
piccoli animali ma, anche se sembra impossibile, grazie ai rilievi che
trattengono l’umidità dell’oceano questo parco è decisamente più ricco
di forme di vita delle aree circostanti. Sulla strada siamo completamente
soli e procedo a bassa velocità per godere del momento, incurante di
tutta la strada che ci aspetta, quando ad un tratto la carreggiata di terra
battuta si fa di graniglia e inizia a salire nel cuore delle montagne, verso
un cielo che dal grigio muta sempre di più verso l’azzurro. Il fondo
sabbioso merita attenzione nella guida, ma non è di difficile percorrenza
e proseguiamo così per quasi venti chilometri in mezzo ad un mondo che
sembra disegnato. Facciamo una sosta per ammirare questo paesaggio
irreale, racchiuso tra montagne che non sembrano altro che pennellate di
marrone in tutte le sue sfumature, e ad un tratto senza più il rumore del
motore, un silenzio totale, dove neanche il vento sembra arrivare con il
suo eterno sibilo, cala etereo ed inaspettato su di noi. È il momento di
guida e di viaggio più emozionante vissuto fino ad ora, e pensare che non
era nemmeno in programma; chissà come sarebbe campeggiare una notte
qui con la Luna che disegna contorni sfocati ed il silenzio della notte a
schiacciare i pensieri su questa sabbia ruvida di millenni. Pensieri che
scivolano via con il rombo del motore che riprende voce, ancora poche
centinaia di metri e siamo di nuovo sulla Ruta-5 lanciati come proiettili
nel cuore del Deserto di Atacama, giustamente considerato uno dei
territori più aridi del mondo.
Ora siamo come una scheggia impazzita diretta verso l’ignoto, non tanto
per la velocità che si mantiene sempre sui 100 km/h di media, ma per
tutto quello che ci sta scorrendo intorno. Percorriamo rettilinei di oltre
dieci chilometri su di un asfalto nero come la pece tagliato in due dal
bianco accecante della linea di mezzeria. Incrociamo soltanto lunghi
autoarticolati che ci suonano in segno di saluto e qualche autobus che si
annuncia con la scritta Santiago che ci fa l’occhiolino sul display
anteriore.
Percorriamo oltre 150 chilometri di veloci curvoni e rettilinei
infiniti, racchiusi da una cornice di montagne color creta e sottesi ad un
cielo che si è fatto eccezionalmente limpido. Come pronosticato
facciamo l’unica sosta possibile per il carburante a metà deserto presso
“Agua Verde”, anche se non riesco a spiegarmene il nome visto che di
acqua non sembra ce ne sia traccia. Il vento soffia forte, tanto che già da
qualche chilometro dovevamo procedere con la moto inclinata per le
forti raffiche laterali. Chiediamo lumi al benzinaio che non ci dà però
speranza, ci dice che qui è sempre così e che anzi nel pomeriggio
solitamente il vento aumenta molto di intensità. C’è un caldo infernale e
siamo a metà del percorso che ci divide da Antofagasta, dove
considerando la media dovremmo arrivare verso l’una del pomeriggio.
Ora siamo nel pieno di un’area arida delimitata ad ovest dalle
montagne della cordigliera della costa, che raggiungono mediamente
2.000 m s.l.m. con punte oltre 3.000 m, e dalle pendici della Cordigliera
Domeyko a sud est, un ramo occidentale della Cordigliera delle Ande
che raggiunge i 4.114 m s.l.m. con il Cerro Quimal. In questa area,
sperduto da qualche parte, sappiamo che si trova anche l’osservatorio
astronomico più grande del mondo. Riempito il serbatoio non ci resta
che ripartire lungo gli infiniti rettilinei spazzati dal vento, con la speranza
di annusare presto di nuovo l’aria fresca del mare. Scruto il paesaggio
intorno a me mentre percorriamo questa meravigliosa follia della natura.
Le montagne sembrano levigate da piogge torrenziali e le forme
sembrano aver accolto in passato morene glaciali; osservo tutto questo
con il pensiero che qui non piove da secoli! Probabilmente al tempo della
creazione prima, e durante le ere glaciali poi, la natura qui doveva avere
forme e aspetti ben diversi da ora; considerazioni che fanno riflettere
sulla grandezza della vita e sull’importanza dell’attimo in cui viviamo,
nonostante sulla scala del tempo sia solo un puntino invisibile. È bello
sentirsi parte di tutto questo e ancor di più viverlo in piena autonomia e
libertà.
La lingua d’argento che si allunga di fronte a noi continua a
vomitare asfalto senza tregua. Nel miraggio dell’orizzonte diventa
persino difficile distinguere la realtà dall’immaginazione e dal desiderio
di ciò che vorremmo veder comparire davanti ai nostri occhi, tanto che
non so se il cartello che ci troviamo davanti sia reale o immaginario:
Antofagasta 40Km. Iniziamo a ridiscendere verso il mare lungo un
rettilineo che sembra non finire mai e ad un certo punto veniamo attratti
da un cartello segnaletico che indica: “Mano del Desierto”.
A poche centinaia di metri dalla strada principale, posta su di una leggera
collinetta, vediamo una scultura di dimensioni quanto meno inquietanti e
decidiamo di dare un’occhiata da vicino: l’opera è una mano di pietra
tagliata all’altezza del polso che esce dalla terra nuda e arida verso un
cielo di lapislazzulo e giace riarsa dal sole e spazzata dai venti. Nella sua
povertà tecnica la trovo una cosa geniale quasi quanto la scintilla divina
che Dio sta trasmettendo all’Uomo nella creazione del Michelangelo,
non tanto per la bellezza estetica o la cura dei particolari, ma piuttosto
nella sua forma archetipica di comunicare un messaggio. Credo che se
dovessi rappresentare la terra il primo giorno della creazione la
rappresenterei esattamente così; peccato che la poesia sia rovinata da
scritte ingenerose e dal gran odore di piscio che aleggia nella
zona....qualcuno probabilmente ha scambiato la scultura per un pisciatoio
pubblico.
Riprendiamo una discesa che sembra non finire mai ed alla fine
di un rettilineo infinito ci rendiamo conto di essere passati dalle vette
dell’Eden nel giorno della creazione alla bocca dell’inferno nel giorno
dell’apocalisse. Il cartello indica “La Negra”, siamo giunti nella zona
industriale alle porte di Antofagasta. Il caldo è infernale, in particolar
modo per l’ora, fumi generati da acidi e da solventi si levano minacciosi
dalle caldaie delle fabbriche e a tratti oscurano il cielo che appare triste e
ammorbato; la terra tutta intorno è impregnata per chilometri da un
colore verde-azzurrognolo che sa tanto più di morte che di vita.
Vogliamo fuggire da qui al più presto, andare il più lontano possibile da
questo angolo di mondo morente e appestato, tanto che non ci curiamo
nemmeno del distributore che incrociamo passando dritti a tutta velocità
e trattenendo il respiro.
Prima della guerra del Pacifico (1879) Antofagasta era una
provincia della Bolivia. Fu occupata dalle truppe del Cile il 14 febbraio
1879 e dopo la battaglia di Topater il 23 febbraio di quello stesso anno vi
fu annessa, anche se il trattato ufficiale di annessione fu però firmato
solo nel 1904. L'attività economica prevalente è quella mineraria e
rappresenta circa il 65% del prodotto interno lordo della regione. Dalla
fondazione della Codelco (Corporacion Nacional del Cobre de Chile) è
drasticamente aumentata l'estrazione del rame; nella regione si trovano
infatti le principali miniere del paese fra le quali il giacimento di
Chuquicamata, la più grande miniera a cielo aperto del pianeta. Fra gli
altri minerali estratti vi sono l'argento, il molibdeno, l’oro, il litio, il
ferro, il carbonato di calcio, lo iodio e il quarzo.
Alla vista di questo inferno la fame si è per qualche istante
dileguata e nonostante sia mezzogiorno decidiamo di rinunciare alla
deviazione per passare in città a mangiare; proseguiamo dritti diretti a
Calama. Le condizioni atmosferiche sono estreme, noi siamo quasi allo
stremo e per poco non ci accorgiamo nemmeno che sul cartello che
stiamo sfilando a bordo strada c’è scritto “Tropico del Capricornio”,
faccio inversione rapida per una foto ricordo, quando mai ci ricapiterà di
passare da qui……in moto! L’aria è di fuoco e mi rendo conto solo ora
che probabilmente fino agli ultimi giorni del nostro viaggio non
rivedremo più il mare. La nostra sosta mancata ci ha rimesso a rischio
carburante, adesso proseguiamo a velocità ridotta e iniziamo ad avere
paura che questa volta non saremo così fortunati da arrivare al
distributore. Arrivati nell’abitato di Baquedano lo percorriamo in lungo e
in largo; tra le sue poche e basse case possiamo ammirare i treni che
infaticabili trasportano i frutti della terra di miniere, una caserma dei
Carabineros del Chile e svariati ristoranti, ma nemmeno un distributore.
Decidiamo che se proprio dobbiamo rimanere a piedi tanto meglio se
siamo idratati e stomaco pieno! Sostiamo in un bar lungo la strada per un
panino e una bottiglia di acqua fresca; dopo aver attraversato il deserto di
Atacama tutto d’un fiato è il minimo che possiamo meritarci! La sosta è
portatrice di nuove amicizie: conversiamo allegramente con due coppie
di brasiliani in moto che stanno facendo ritorno a San Pedro Atacama e
poi di nuovo, attraversata l’Argentina, in Brasile. La loro curiosità
iniziale è stata accesa dalla mia moto che da queste parti non è così
comune e la conversazione concitata si protrae diversi minuti in una
lingua inventata al momento che comprende nell’ordine vocaboli di
spagnolo, portoghese e italiano. Non nascondono di essere entusiasti del
fatto che mi sono spedito una moto dall’Italia al Sudamerica e ancora di
più perché da loro una moto del genere, seppur vecchia, avrebbe un
valore di certo maggiore a quello del mercato italiano, da quello che mi
dicono nell’ordine di almeno cinque grandezze. Diventiamo in un istante
la loro icona di motociclisti provetti e saputo del nostro problema
carburante si offrono di scortarci fino a Calama. Il distributore
fortunatamente lo incontriamo a soli 26 chilometri da dove ci trovavamo,
esattamente al crocevia della strada che si dirama verso Iquique al nord e
verso Calama all’interno. Il vento laterale è sempre più forte e fastidioso,
ora però con il serbatoio e lo stomaco pieni e scortati da due moto
d’appoggio, corriamo dritti e senza timori verso la fine di un’altra
giornata faticosa e densa di emozioni.
Arrivati alle porte di Calama salutiamo i nostri nuovi amici con
la speranza di rincontrarci a San Pedro e puntiamo dritti verso la collina
che scorgiamo in lontananza; a fare da sfondo alla cittadina c’è infatti
l’immenso complesso industriale della miniera di Chuquicamata. La
strada è un lungo rettilineo in salita a due corsie per senso di marcia che
porta diretta all’ingresso di quello che dicono essere il più grande buco a
cielo aperto creato dall’uomo. Immense montagne artificiali
accompagnano le ultime centinaia di metri prima del freddo cancello che
sbarra l’ingresso agli estranei. Chiediamo informazioni alla reception
dove ci comunicano che fino a lunedì non sono più previste visite; in
tutto questo trambusto avevamo per un attimo dimenticato che oggi è
sabato. Ci consultiamo rapidamente, di restare due giorni in città non se
ne parla nemmeno, il Sole è ancora alto nel cielo e San Pedro dista
“soltanto” altri cento chilometri; la scelta è d’obbligo e ci lanciamo di
nuovo in discesa lungo il rettilineo che abbiamo appena percorso in
senso contrario e dove la moto sembrava accusare non poco l’aria
rarefatta dall’altura. Questi ultimi chilometri di giornata sono percorsi
tutti su di un vasto altipiano a oltre 3.000 m .s.l.m., stretti nei vestiti a
causa dell’aria che inizia a farsi fresca puntiamo dritti verso l’orizzonte
con il Sole alle spalle che allunga la nostra ombra davanti a noi e si fa
sempre più basso. Non ci curiamo più tanto di un paesaggio noioso e
piatto, che comunque dobbiamo ripercorrere lunedì per ritornare in visita
alla miniera, poi a circa quindici chilometri dalla meta, dopo un paio di
curve in salita, valichiamo una piccola corona di montagne e davanti
a noi si apre una discesa folle verso un altopiano che sembra dipinto e
che nei suoi colori pastello si sta vestendo a sera…...è il Salar de
Atacama.
Entriamo in San Pedro quando ormai sta facendo buio. Il
piccolo paese è ormai divenuto una rinomata meta turistica, grazie
alla sua posizione perfetta rispetto a numerose attrazioni della natura
e alla sua vicinanza con il confine argentino e boliviano, ma notiamo
come conservi intatte strade caratteristiche in terra battuta e graziose
case in adobe. Vaghiamo in cerca di alloggio come fantasmi tra le vie
e quasi come un inaspettato miraggio incrociamo improvvisamente i
nostri amici brasiliani in arrivo anche loro dopo un giretto a Calama.
Li seguiamo fino all’ingresso del camping Takha Takha, dove
sembrano essere di casa e noi troviamo alloggio in un bungalow a
prezzo più che ragionevole. Dopo quasi un’ora dall’arrivo ed una
doccia rigenerante sento ancora il corpo vibrare per tutto il tempo in
cui sono stato seduto in sella, controllo il contachilometri e neanche a
farlo apposta il parziale odierno è praticamente identico a quello di
ieri: 741 chilometri, che sommati ai 740 di ieri e ai 260 del primo
giorno, fanno 1.741 chilometri macinati nelle lande desolate dei
deserti cileni in poco più di 48 ore!!
Andiamo a cena con gli amici brasiliani che prima di uscire
mi offrono Mate dalla loro bombilla. Passeremo tutta la sera a
raccontarci storie dei nostri rispettivi paesi e quando a fine serata
facciamo ritorno all’alloggio passeggiando sotto ad un cielo australe
nero come il carbone e tempestato di stelle luccicanti come diamanti,
mi chiedo a lungo cosa cavolo ci siamo detti visto che loro parlavano
quasi solo portoghese e noi spagnolo mischiato all’italiano!