martedì 9 febbraio 2010
L’EPILOGO
VENTESIMO GIORNO
Di prima mattina lasciamo i bagagli ingombranti da Cesar e ci
dirigiamo al terminal dei bus locali. Saliamo su di un bus blu scuro,
ricco di ammaccature e dai sedili sdruciti di finta pelle marrone.
Appena partiti la strada si inerpica subito sulle montagne, per
scendere poi rapida in una valle che si fa sempre più verde e stretta tra
montagne acuminate. Proseguiamo tra curve e contro curve fino a
quando tutto ad un tratto, sul lato sinistro della strada, si apre come
una voragine: la valle del Rio Urubamba, la valle sacra degli Inca.
Arrivati a Pisaq scendiamo al crocevia, che si trova subito a ridosso
del ponte sul fiume, e prendiamo un taxi diretto all’ingresso delle
rovine; la strada sale e in pochi chilometri siamo di nuovo in quota, a
dominare con lo sguardo la Valle Sagrada dall’alto. L’ingresso del
sito archeologico è praticamente deserto, oltre a noi per il momento
non ci sono molti altri visitatori e possiamo goderci in totale
tranquillità gli scorci incredibili che ci regala questo angolo di Ande
peruviane. Vette irte e spigolose, ricoperte da un sottile manto verde
brillante, cingono una valle stretta che accoglie una piccola pianura
alluvionale e al centro di essa scorre imperturbabile il serpentone
color fango dell’Urubamba. Le rovine di Pisaq sono sparpagliate su di
una superficie vasta e sono abbarbicate a cavallo del costone roccioso
che domina l’attuale cittadina dall’omonimo nome, e sono formate da
un grande anfiteatro di terrazzamenti che unisce le due parti principali
del sito. Percorriamo il sentiero segnato con il sole che ci illumina il
volto da est e un agglomerato di nubi plumbee che da ovest
avvolgono le cime sopra di noi. In certi tratti i ripidi scalini ricavati
dalla roccia si inerpicano in passaggi improbabili, per qualche istante
tratteniamo il fiato sospesi tra la ruvida parete fredda e spoglia e il
baratro che si apre dall’altro lato del sentiero, poi il percorso ad un
tratto si divide in due: uno ritorna verso l’ingresso, mentre l’altro più
audace abbraccia la montagna e scende inesorabile fino al cuore della
città nuova. Decidiamo di procedere a piedi fino a Pisaq.
Il sentiero ci getta direttamente nella piazza centrale, dove si
sta svolgendo il mercato cittadino e tra i tanti venditori spiccano
magnifici ciondoli realizzati con mosaici di pietre colorate. Per lo più
si tratta di simbologia Inca che rievoca le principali divinità: Sole,
Luna, Pachamama e Universo. Tra i tanti simboli noto anche diversi
gioielli che rappresentano la Chakana, detta anche croce andina e
considerata simbolo millenario delle Ande. Essa rappresenta la
costellazione della Croce del Sud e i tre mondi Inca; il buco al centro
rappresenta il cerchio della vita, è formata da dodici angoli che
rispecchiano i mesi dell’anno e da quattro bracci che indicano i punti
cardinali. Letteralmente Chakana è un vocabolo di origine quechua
che deriva dall’unione delle parole chaka (ponte, unione) e hanan
(alto, grande) e sta a significare unione con l’Hanan Pacha, ovvero il
mondo superiore, il mondo dei cieli, dove vivono le divinità.
Lasciamo l’animato mercato poco prima di mezzogiorno e
camminando per le vie cittadine, prima di lasciare la città, ci
concediamo una rigenerante spremuta di arance fresche. La strada che
prosegue verso Ollantaytambo costeggia il corso dell’Urubamba che
ora ci scruta impetuoso da pochi metri, gonfiato dall’acqua e dai
detriti fangosi portati dalle piogge degli ultimi giorni. Le coltivazioni
verdeggianti del mais dominano in ogni direzione la splendida vallata,
e scrutando dal finestrino il magnifico paesaggio che scorre davanti ai
miei occhi, non stento a comprendere il motivo per cui gli Inca
avessero colonizzato questa valle considerandola sacra. Quando
siamo quasi a metà strada, presso l’abitato di Urubamba, dobbiamo
cambiare colectivo. L’autista ci stipa all’inverosimile nel piccolo
monovolume, incurante delle brutte parole rivolte alla sua persona
dagli occupanti e Linda per “fortuna” sua si ritrova ora con
un’anziana signora che mastica pannocchie di mais seduta con
indifferenza sulla sua gamba; Ollantaytambo fortunatamente non è
lontana. Il paese si presenta ai nostri occhi come un piccolo
agglomerato di case dominato da imponenti rovine Inca che
aggrappate alla montagna sovrastano la piccola vallata. Ci
concediamo un pasto e facciamo una lunga camminata tra le rovine,
ma ormai l’atmosfera di attesa si è fatta inquieta e non c’è più niente
in grado di distrarci veramente dalla destinazione finale e
dall’esperienza che ci stiamo preparando a vivere.
La saletta della stazione è piena di turisti di ogni estrazione e
salta agli occhi la totale assenza di abitanti del luogo, ma non
potrebbe essere altrimenti perché a parte qualche treno locale, su cui i
turisti non possono salire, le uniche carrozze che percorrono questo
tratto di strada ferrata sono quelle che trasportano i turisti fino ad
Aguas Calientes. Dopo una lunga attesa sui binari il treno inizia a
muoversi lentamente e mentre a pochi metri da noi il fiume gorgoglia
e borbotta manifestando la sua presenza prendiamo velocità, e il
mostro di ferro inizia a sbuffare gettando diabolici fischi al cielo. In
breve tempo la gola si stringe e la ferrovia corre a pochi metri dalle
rapide. Mano a mano che scendiamo la vegetazione si fa più folta e le
acque del fiume sempre più impetuose. Il cielo è ora grigio e
caliginoso, l’urlo rabbioso del fiume si alza dalle sue acque, la
macchina di ferro sibila sferragliando e tutto intorno a noi la
vegetazione grondante di umidità osserva immobile; sarà la fremente
attesa di giungere alla meta, ma il viaggio sembra essere un passaggio
attraverso uno stato dell’anima piuttosto che attraverso un luogo o un
tempo. Iniziamo a rallentare, gli sbuffi calano di intensità ed infine un
lungo fischio ci annuncia Aguas Calientes. Entriamo in stazione
mentre il lussuoso treno intitolato ad Hiram Bingham si sta
muovendo sui binari nella direzione opposta.
Hiram Bingham, uno storico esploratore statunitense che
stava esplorando le vecchie strade Inca della zona alla ricerca
dell'ultima capitale Inca Vilcabamba, il 24 giugno del 1911, riscoprì
grazie alla indicazioni di Agustín Lizárraga, un proprietario terriero
del Cusco, le rovine di Machu Picchu. Sembra che all’epoca la
cittadella fosse abitata da due famiglie contadine che sfruttavano i
terrazzamenti per coltivare la terra, e che fu proprio uno dei bambini
residenti ad accompagnare l’esploratore fino alla “zona urbana”, dalla
quale Bingham restò profondamente colpito. Bingham, con
l’appoggio dell’università di Yale, compì parecchi altri viaggi sul
posto ed eseguì scavi fino all’anno 1915, solo più tardi però si rese
conto dell'importanza della sua scoperta convincendosi che la città di
Machu Picchu fosse quella che lui chiamava Vilcabamba.
Usciamo dalla stazione, Aguas è rumorosa, ancor più per la
voce insistente del fiume e già appena arrivato ho la netta sensazione
di trovarmi in un luogo di transito. Il pueblo è chiuso tra la stretta
valle dell’Urubamba e quella di un suo affluente, le costruzioni
cresciute in modo selvaggio sembrano tuttavia schiacciate sotto il
peso di irti picchi e di una vegetazione selvaggia pronta ad inglobare
nuovamente tutto non appena l’uomo abbandoni l’avamposto. Da
quaggiù non riesco ad intravedere altro che un fazzoletto di cielo, lo
scruto mentre si fa buio ed argenteo ed i profili taglienti delle
montagne non sono ormai nient’altro che ombre minacciose; mi
chiedo in quale di queste vette si nasconda la cittadella Inca più
famosa del mondo e in quale angolo abbia a lungo custodito
gelosamente il suo segreto. Nel frattempo una niña si avvicina
mostrandoci il biglietto da visita di un ostello, non abbiamo mete
prestabilite e tanto vale seguirla per dare un’occhiata. Le camere sono
essenziali ma sembrano pulite, non abbiamo molta voglia di cercare
altrove ancor più perché sarà solo per poche ore visto che domani
mattina all’alba saremo già in fuga da qui.
Facciamo un giro per il paese. Il mercato, essenzialmente
turistico, si snoda a ridosso della stazione, mentre i ristoranti si
susseguono per le strette vie chiassose del centro; ne scegliamo uno a
caso per consumare una cena frugale. Il clima non è freddo in
relazione alle temperature oggettive, ma è decisamente umido e
questo provoca una sensazione di freddo che penetra il corpo, quasi
venisse dall’interno. Per la prima volta da quando abbiamo lasciato
San Pedro de Atacama in Cile, siamo ritornati ad una quota prossima
ai 2.000 m s.l.m. e anche se l’impressione rispetto a Cusco è di essere
più in alto, forse a causa del paesaggio, siamo in realtà oltre mille
metri più in basso.
Scruto il buio della notte fuori dalla finestra, le luci cittadine
sono tenui e giallastre, i fili disordinati della corrente elettrica
disegnano strani arabeschi nell’ombra, le voci stridule dei passanti
fanno eco tra le case, lancio un ultimo sguardo a questa cittadina triste
e disordinata prima di crollare in un sogno cullato dal boato
incessante del fiume:
……sto ammirando con occhio nostalgico i nevai che ci
accompagnano sullo sfondo e ad un tratto mi ritrovo a contemplare la
disordinata Cusco, è avvolta nella luce soffusa di un tramonto senza
pioggia e senza nubi, nelle luci brillanti della sera e mi riempie il
cuore di pace e serenità. Un battito di ciglia e stiamo lasciando
l’ombelico del Mondo, brulicante della sua vita aspra, la notte è buia,
gelida, e come in un sogno dentro il sogno mi sento a lungo
sobbalzare sul sedile di un autobus che corre follemente nella notte,
tra sibili di vento e paura. Ho l’impressione di risvegliarmi quando ci
ritroviamo in un’ampia città dai muri bianchi e dalle vie ordinate:
Arequipa. La città sembra rispettare in pieno il motto dei suoi
abitanti: prima che peruviani, arequipeños. Ci appare con un’umanità
dal volto nuovo, finora sconosciuta in un Perù che si è mostrato avido
e sprezzante verso gli stranieri; la piazza principale è orlata di
terrazze fiorite, il cielo sgombro di nubi e l’aria limpida danno un’aria
eterea alla giornata. Osservo i vulcani nitidi, che vegliano le mura
diafane di Arequipa, mentre corriamo per le vie della città su di una
vecchia macchina americana dai sedili avvolgenti come divani. Tra i
loro ghiacci perenni fu trovata una mummia: era il corpo di una
giovane Inca sacrificata agli Dei per volere dei sacerdoti. L’hanno
ribattezzata Juanita, ed ora con il suo sguardo triste spento da secoli
riposa per studiosi e turisti in una teca, dove solo il ghiaccio avvolge
la sua indifesa nudità, mentre i suoi splendidi abiti di principessa sono
ancora intatti, a pochi metri di distanza; quale terribile epilogo dover
subire questo supplizio e non poter avere eterno riposo tra i ghiacci, là
dove per secoli aveva vegliato i suoi discendenti.
La città fugge in fretta ai nostri occhi e dopo le luci della sera
l’alba ci proietta nuovamente in viaggio. Rotolando verso sud
ritroviamo ad accoglierci l’arido deserto, il nastro d’asfalto sale e
ridiscende infaticabile e solo qualche piccola oasi verde che segue il
corso dei fiumi rompe la monotonia del paesaggio fino a Tacna. Qui
ci facciamo merce per i colectivos e lungo un piatto deserto che
costeggia l’oceano siamo sballottati fino alla frontiera cilena.
Finalmente l’oceano, grande falso immobile, sembra passata una vita
da quando i miei occhi bramosi di avventura si sono posati su di te
l’ultima volta, eppure non è trascorsa nemmeno una luna. così che
ci ritroviamo ad Arica, la porta nord del Cile. La città sembra
schiacciata tra il grosso scoglio roccioso che la sovrasta ed un porto
animato dal mosaico colorato di container diligentemente impilati
sulle sue banchine. Giorni di relax che scivolano veloci, su di una
spiaggia infinita, con gli occhi puntati verso il mare, di nuovo senza
barriere e con solo orizzonti davanti a noi.
Mi rigiro nel letto, è buio, Linda è accanto a me e fuori dalla finestra
riconosco il boato dell’Urubamba. Ricado nel sonno ipnotizzato dalla
sua nenia infernale:
……nel frattempo un nuovo anno è arrivato a sostituire il
vecchio. Un ultimo sguardo cade sulla città dal morro che la domina,
poi di corsa sotto ad un sole infernale saltiamo su di un autobus che si
inerpica tra sterili vallate ed orizzonti ocra, scenari fatti di polvere e
di vento. Con lo sguardo magnetizzato da spazi senza fine quasi non
mi accorgo che dall’alto stiamo piovendo sulla querida Iquique. Il
sole è basso sull’orizzonte e scrutando la città dall’alto, dalla strada
che ci sta portando nel suo ventre, sento all’interno del mio cuore la
stretta di un cerchio che si sta chiudendo; il sapore dolce dei giorni
andati si mescola all’amaro di ciò che è stato e non potrà più essere.
Mentre l’autobus ci lascia sulla strada, a qualche centinaio di metri
dall’aeroporto, il sole si inabissa sul mare e simbolicamente svanisce
con lui la nostra America Latina on the road. Trascinate le valigie tra
la polvere di una terra arida e antica arriviamo camminando per i
campi alle moderne porte scorrevoli dello scalo aereo; giusto in
tempo per prendere il volo all’ultimo minuto. Un paio d’ore e
planeremo sulle luci brulicanti di Santiago che rischiarano un’estiva
notte australe.
Santiago del Cile è una città estremamente europea, con i suoi
grattacieli, la metropolitana e la sua traboccante cultura letteraria.
Passeggiamo tra i vicoli del barrio Lastarria, in Plaza de Armas e per
i suoi viali ordinati e puliti. Gettiamo uno sguardo ammirato al
“Palacio de la Moneda”, il luogo dove il presidente Salvador Allende
attese con onore la sua morte avvenuta per mano del Generale
Pinochet, in quel terribile 11 settembre 1973 che cambiò la storia del
paese e la vita di tanti cileni. Ma Santiago del Cile è anche la pace dei
suoi parchi, nascosti nelle alture dei cerri, è la cultura che trasuda
dalla casa del poeta Neruda, al punto che qualche visionario afferma
neanche tanto utopisticamente che non è Neruda ad essere cileno, ma
è il Cile ad essere nerudiano. Il nostro tempo è ormai agli sgoccioli
quando ci ritroviamo a percorrere la Valle del Maipo con i suoi
ordinati vigneti, infiniti filari che abbracciano la terra producendo i
vini cileni più famosi nel mondo, per poi raggiungere Valparaiso. Era
questa la metà più ambita dai marinai che superavano la brutale forza
dello Stretto di Magellano, tra il mosaico colorato delle case che
ricoprono l’anfiteatro naturale di questa baia, con i suoi ascensori
funicolari e i suoi gatti sonnecchianti alle finestre. Ci aggiriamo per le
stanze de La Sebastiana la casa che solo l’estro di Neruda poteva
disegnare con tanta innegabile e splendida fantasia. Marinaio senza
mare, scrutava l’oceano dalla prua della sua nave in terra, ed ora io
faccio lo stesso dalla grande finestra annegata di luce del suo
soggiorno. I tetti delle case si susseguono, come tanti gradini che
scendono inchinandosi ai piedi del mare, tra stretti vicoli carichi di
salsedine, di storie e di tempeste. Chiudo gli occhi lasciandomi
riempire di luce e quando li riapro sto scrutando le bianche vette delle
Ande dal finestrino dell’aereo, sono cinte da nubi evanescenti e
soffici, sfuggevoli come i miei pensieri. Solo ora mi rendo conto che
sono trascorsi trenta giorni da quando abbiamo lasciato la nostra casa.
Ripenso a quel sogno di viaggio che avevo coraggiosamente portato
con me, ripenso alla sconfitta che ho dovuto accettare, imparando che
in ogni sconfitta c’è una vittoria che può aiutarci ad andare oltre i
nostri limiti. Ripenso alle ultime tiepide notti cilene, spese a
conversare con gli universitari del barrio Bellavista, e ripenso agli
amici cileni, boliviani, brasiliani o peruviani che abbiamo incontrato
lungo il nostro cammino. Gli occhi si bagnano di umide e a stento
trattenute lacrime. Penso che forse la nostra casa non l’abbiamo mai
lasciata, perché la nostra casa è il Mondo. Chiudo gli occhi e respiro
profondamente come se insieme all’aria riportassi dentro di me
l’anima che tenta di rifuggire lontano.