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martedì 9 febbraio 2010

L’OMBELICO DEL MONDO

SEDICESIMO GIORNO È ora di riprendere il cammino, ora di rimettersi sulla strada, perché la strada è il viaggio. È ciò che riempie il vuoto immaginario che si viene a creare tra due punti ben distinti: la partenza e la meta finale. Per capire questo basta che pensiate alla vita, potreste mai comprendere la vostra se toglieste tutto quello che c’è tra la vita e la morte?! Come per la vita anche nel viaggio l’inizio e la fine sono solo due istanti a cui spesso si dà troppo significato, spesso ci concentriamo su obbiettivi successivi senza gustarci il tragitto, senza godere a piene mani delle emozioni che ogni giorno tentano di elevare la nostra anima. Mi volto indietro e vedo quanta strada abbiamo percorso fino ad ora: siamo schizzati come proiettili impazziti su e giù per il Cile, mentre brividi frenetici ci correvano lungo la schiena ad ogni metro, ad ogni pietra, pianta, o sguardo che incrociavamo. Ho sfiorato la mano di Dio sospeso tra la Terra e il Cielo nei grandi spazi aperti, ho danzato sull’orlo dell’oblio in quel pueblo maldido che ci ha strappato dal nostro rincorrere la libertà con il vento in faccia, senza mai tuttavia afferrarla del tutto. Ho camminato sull’abisso della tristezza, rinchiuso nella vacuità di una jeep, che percorreva in lungo e in largo l’accecante bagliore del salar più grande del mondo. Nella gelida notte boliviana scortato dalle stelle, tra mendicanti e indios smarriti, sono rinato, partorito con dolore dal ventre delle miniere di Potosì e da qui, con un volto nuovo, ho ripreso ad annusare la strada fino al caldo e gelido abbraccio di La Paz. Rivedo tutto questo alle spalle eppure non sono sazio di andare, eppure il richiamo è ancora forte. Lasciamo la città di primo mattino mentre un timido sole tenta di bucare le nubi nell’eterna lotta per il dominio del cielo. Ripercorriamo la strada che ci ha portato a Tiahuanaco e dopo non molti chilometri raggiungiamo la frontiera con il Perù nella località di Desaguadero. Veniamo fatti scendere, controllati uno ad uno dall’esercito boliviano e poi fatti risalire per procedere verso il confine che si trova a qualche chilometro. A memoria non ricordo nulla di più caotico e incontrollato di questo varco di frontiera, certo quando l’anno scorso varcammo il confine cambogiano a Poipet mi sembrò di attraversare una porta dimensionale che separava due mondi agli antipodi, ma qui la confusione regna sovrana persino nelle guardiole della polizia. Cerco invano di trovare qualcosa che assomigli alla dogana merci, mi mandano avanti e indietro da un ufficio all’altro ma nessuno sembra darmi l’indicazione giusta. Con oggi è la terza volta che mi arrabatto per trovare una dogana dove dichiarare che ho abbandonato la moto guasta e regolarizzare la posizione del veicolo. La prima volta a Uyuni ho trovato una vecchia struttura abbandonata con i vetri rotti, la seconda a La Paz dove abbiamo desistito dopo ore passate ad andare avanti e indietro chiedendo ai poliziotti che ci rimpallavano da un posto all’altro, e quest’ultima qui, sul confine peruviano. Sembra che a nessuno interessi niente della moto, sono quasi tentato di farmi fare un timbro a caso offrendo qualche boliviano come mancia, ma poi penso che se la cosa non interessa a loro figuriamoci a me! Metto piede in Perù, il passaporto è timbrato, adios Bolivia. Per la legge boliviana adesso sono a tutti gli effetti un contrabbandiere, anche se dubito che per molti anni in quell’angolo sperduto di Vallenar, qualcuno andrà mai a chiedere lumi su quello strano mezzo meccanico. Ci lasciamo così alle spalle giorni densi di emozioni e immagini indimenticabili, giorni in cui abbiamo respirato l’odore dell’infinito e appreso l’importanza che questi popoli rilegano al culto della Pachamama; o meglio appreso il significato delle parole Mama-Pacha, che in quechua significano Madre-Terra. I popoli andini infatti oltre a venerare Inti, il Sole, prevedono nei loro culti la dualità maschilefemminile: venerano in poche parole la femminilità della grande Madre Universale che porta in grembo ogni creatura vivente, e il lato maschile, il seme universale portatore di vita. Sembra inoltre che in passato il culto di Inti fosse relegato all’elite, mentre quello della Pachamama al mondo rurale; nel mese di Agosto le popolazioni andine praticano tutt’ora il culto del ringraziamento alla Pachamama, restituendo alla madre terra il nutrimento che essa fornisce loro. Viene scavato un fosso, un’enorme buca nella quale tutti gli offerenti partecipanti al rito ripongono alimenti, cibo e pietanze che vengono appositamente cucinate per l’occasione. La buca viene poi completamente ricoperta, ogni partecipante vi depone una pietra, e al termine della cerimonia si forma una vera e propria montagnola di sassi denominata Apachete; solitamente per il rito viene scelto un luogo posizionato in alto per far sì che sia il più possibile vicino al Sole (Inti). In altri casi la Pachamama viene gratificata con il sacrificio di un feto di lama o con l’offerta di foglie di coca; il motivo di queste strane offerte è da ricercare nel fatto che per queste popolazioni la coca e il lama sono essenzialmente importanti per la sussistenza e che quindi un loro sacrificio è simbolo di grande devozione. Abbandonata la chiassosa umanità frontaliera iniziamo un percorso che si snoda tra coltivazioni intermittenti e pascoli ingialliti. Costeggiamo le rive del lago Titicaca lasciandole di tanto in tanto per risalire verso dolci declivi. A tratti il lago si perde nell’orizzonte, tra le nebbie di un cielo avorio che si specchia sulle sue acque e sulle disordinate pozzanghere che di tanto in tanto orlano la strada. Un paesaggio di buoi intenti a tirare gli aratri, di pecore e mucche al pascolo si sovrappone a quello essenzialmente lacustre fino a Puno. Il Titicaca è il lago navigabile più alto del mondo, la sua superficie è a 3.812 m s.l.m. e la sua estensione risulta essere di oltre 8.300 chilometri quadrati. Il suo nome sembra derivi dalla congiunzione delle parole indigene titi e kaka, cioè puma e pietra, e dall’alto infatti secondo le popolazioni locali la forma del lago ricorda quella di un puma che caccia una viscaccia (un grosso roditore). Grazie alla purezza delle sue acque, la trasparenza del lago è eccezionale, e in alcuni casi varia da 15 a 65 metri, inoltre vista la rarefazione dell’aria e la luce, che in alcuni momenti della giornata è magnifica, si ha l’impressione che le montagne circostanti siano in riva al lago quando in realtà in molti casi distano fino a trenta chilometri. Un’antica leggenda riporta il lago come una delle porte dell’Eldorado, un luogo presieduto da una grande civiltà dove l’oro abbondava. A conferma di questo ci sono molte leggende locali che narrano come un’antica splendente città, in un tempo remoto, venne inghiottita dalle acque. Teatro di questa sciagura sarebbero i dintorni delle due isole che si trovano in terra boliviana: l’Isola del Sole e l’Isola della Luna. Le ricerche scientifiche effettuate tuttavia fino ad ora non hanno mai portato a nessun ritrovamento. Geograficamente il lago, in seguito a diatribe nazionalistiche, è stato diviso equamente tra Perù e Bolivia, anche se tuttavia i peruviani ne reclamano una parte decisamente più consistente di quanto non gli sia stato assegnato. La città di Puno è anche il capoluogo dell’omonimo distretto, una città che supera di poco i 100mila abitanti e che vive, oltre che di turismo, con il porto commerciale e il mercato di bestiame. Arrivati in città ci sistemiamo alla Posada dell’Abuelo, una piccola pensione nascosta tra le vie del centro, poi approfittando di qualche raggio di luce che timidamente buca le nuvole decidiamo di fare un’escursione alle Isole Uros. La barca lascia velocemente il porto, un luogo dove le acque hanno perso tutta la loro trasparenza a causa dell’elevato inquinamento prodotto dall’insediamento umano, e nei primi chilometri attraversiamo canali d’acqua scavati tra giunchi nei quali gli uccelli acquatici giocano a nascondino al nostro passaggio, poi scorgiamo finalmente le isole che, illuminate dalla luce del tardo pomeriggio, sembrano tanti letti dorati adagiati sulle acque. Gli Uros sono una minoranza etnica, o forse sarebbe meglio dire erano una minoranza etnica, visto che l’ultima discendente di pura stirpe, una donna, morì nell’anno 1955. Una popolazione fondamentalmente pacifica che stanca delle guerre che in passato si scatenavano tra Quechua e Aymara decise di spostarsi a vivere in terra neutrale, o forse sarebbe meglio dire in acque neutrali visto che si trasferirono in mezzo al lago. Le isole, formate da grosse zolle di giunchi galleggianti, vengono ancorate sul fondo del lago, accorgimento che comunque, a causa delle correnti sotterranee, non gli impedisce di spostarsi anche di diverse decine di metri; sono quindi isole artificiali. Le popolazioni che ora vi risiedono, e che hanno dato il via al loro sfruttamento turistico, sono probabilmente l’ultima generazione di discendenti Uros che le abiteranno; sembra infatti che progressivamente stiano abbandonando la vita stanziale sugli insediamenti per quella sulla terraferma. Gli insediamenti acquatici stanno tuttavia, durante il giorno, diventando una valida fonte di reddito che difficilmente verrà abbandonata. Il cielo è ancora plumbeo e carico di pioggia, ma il Sole che ora è basso all’orizzonte riesce a spingere i suoi raggi fino a noi. L’aria è fredda, quasi gelida, limpida in una maniera assoluta, tanto che i colori tutto intorno a noi brillano di una luce incredibile. Le case di paglia, i vestiti sgargianti delle donne e i riflessi delle acque del lago sono il quadro più bello che abbiamo visto dalla nostra partenza ad ora. Oro, argento, verde brillante, rosso, blu, viola, azzurro, grigio e indaco in tutte le loro tonalità, mischiati con la pelle scura e gli sguardi impenetrabili di donne e bambini sono un’immagine che si fissa indelebile nella mente. Rientriamo in porto all’imbrunire mentre le tremolanti luci della città ci accolgono abbarbicate sulla collina che domina il porto, l’aria è gelida e il vento che spazza le strade, ora deserte, porta una pioggia fitta ed insistente. Ci rinchiudiamo in un ristorante, che ha il camino acceso, ad assaggiare la famosa trota del lago Titicaca. Fuori dai vetri, tra le raffiche di vento e la pioggia, vediamo sfilare un improbabile Babbo Natale con tanto di renne al seguito……domani sarà la vigilia di Natale. DICIASSETTESIMO GIORNO Il tè che ci servono a colazione ha lo stesso terribile sapore di fango della trota di ieri sera e mi sorge il dubbio che lo facciano con le acque del porto, chissà! Tutto quanto abbiamo da fare oggi non è che attendere il pomeriggio, quando partiremo alla volta di Cusco, vagando per le vie della città. Ci aggiriamo per il centro e per il chiassoso mercato centrale, osservando come la città vada animandosi con il trascorrere delle ore senza tuttavia diventare mai realmente interessante. È veramente poco il tempo trascorso qui, ma Puno non riesce mai a catturare la nostra bramosa curiosità; a tratti appare eccessivamente sciatta e in altri troppo turistica, come nelle numerose e deserte bancarelle dai colorati tessuti ricamati che ornano il porto e che non avrebbero ragione di esistere se non per uso del turismo internazionale. Sono appena trascorse le due del pomeriggio quando lasciamo le rive del lago diretti a Cusco, saliamo sulle colline e scomparendovi alle spalle diamo il nostro addio al Titicaca; il pullman è tracimante di famiglie numerose e di bambini chiassosi. Percorriamo lunghi rettilinei tra prati ingialliti, adagiati sotto ad un cielo di nuvole avorio, che si alternano disordinatamente a pascoli verdeggianti. Il viaggio risulta monotono per ore fino a quando, ad un centinaio di chilometri oltre l’anonima città di Juliaca, entriamo in una valle stretta tra irti picchi dal verde brillante e vette innevate. Le case si fanno disordinatamente più regolari e i tetti chiari riflettono la poca luce che ancora filtra dal cielo color piombo. La strada costeggia a lungo una ferrovia, che sembra destinata all’ombra di un treno fantasma, e un fiume del quale seguo a lungo con gli occhi l’irregolare corso snodarsi tra ordinate file di campi coltivati e ombre di camini che gettano il loro fumo biancastro al cielo. L’impressione è che fuori faccia un gran freddo e ne ho la conferma quando il cartello stradale del passo montano che stiamo attraversando indica 4.300 m s.l.m.; oltre di esso il buio ci inghiotte facendo scomparire la bella vallata andina e rilegandoci in un mondo fatto solamente di bagliori brillanti che ci ammiccano sparpagliati nelle tenebre. Alle nove e trenta di sera arriviamo finalmente a Cusco. Esausti, rinunciamo persino a cercare alloggio fidandoci di uno dei tanti procuratori che offre sistemazioni nel quartiere San Blas. L’hostal è decisamente basico e le camere sembrano tutte uguali tra loro; ne prendiamo una a caso ma ben presto ci rendiamo conto che non è affatto decente e rinunciamo persino ad utilizzare la doccia. Un po’ affranti usciamo in cerca di una cena e ci rendiamo subito conto però che molti locali stanno già chiudendo i battenti. Il quartiere San Blas si sviluppa verso l’alto e nei dintorni dell’omonima piazza, e da qualche anno è il preferito dei viaggiatori “zaino in spalla” ed artisti. Le vie sono illuminate da luci fioche e giallognole che mettono i vicoli in misteriosa penombra, e non è difficile comprendere come questo quartiere, dove si concentrano laboratori e negozi di artigianato, sia considerato uno dei più pittoreschi della città. Le sue strade che si inerpicano verso la collina sono strette da palazzi antichi costruiti su fondazioni incaiche e nella piazzuola centrale, dove si trova la parrocchia più antica di Cusco edificata nell'anno 1563, fu posto un pulpito di pietra intagliata che è considerato la massima espressione della Cusco coloniale; il nome quechua di questo quartiere è Toq'ocachi che tradotto significa "posto della grazia". Continuando la nostra ricerca culinaria giungiamo all’apice di un vicolo stretto e tortuoso, e finalmente troviamo la posada-ristorante di Cesar, boliviano atipico nei suoi tratti somatici, che ci accoglie con calore; siamo gli unici avventori del locale e per un attimo restiamo titubanti sull’ingresso, ricredendoci però in fretta dopo aver mangiato una splendida trota, ben diversa da quella di Puno, e un ottimo lomo saltado. Allo scoccare della mezzanotte di Natale siamo fuori dal locale, e con nostra grande sorpresa vediamo il cielo esplodere in mille fuochi artificiali colorandosi d’oro e d’argento. La città è adagiata in una conca naturale e con le luci della sera e le sue numerose chiese che svettano tra le case, ci appare come un piccolo presepe brulicante. Solo ora mi rendo conto che con il nostro viaggio, iniziato nelle lontane terre cilene, siamo arrivati all’ombelico del Mondo. Cusco capitale storica dell’impero Inca, situata a 3.400 m s.l.m., deve il suo nome proprio all’antica parola Inca Qusqo che significa ombelico. Per gli Inca la città era infatti il centro dell’Universo, in questo luogo confluivano il mondo degli inferi (Uku Pacha), il mondo visibile (Kay Pacha) ed il mondo superiore (Hanan Pacha). Almeno due leggende indigene attribuiscono la fondazione al primo imperatore Inca, un essere leggendario chiamato Manco Capac, insieme a sua sorella e consorte Mama Ocllo. In entrambe si afferma che il luogo fu rivelato dal Dio Sole dopo una peregrinazione iniziata a sud della valle sacra degli Inca in cerca del luogo esatto. Non si conosce la data approssimativa di tale evento però gli studiosi di archeologia sono in accordo nel dire che la zona nel quale è ubicata la città fosse abitata già 3.000 anni fa; all’arrivo degli spagnoli Cusco appariva come la città abitata più antica di tutte le Americhe. Fu capitale e sede di governo del regno degli Inca e continuò ad esserlo nelle fasi iniziali dell'epoca imperiale, diventando la città più importante delle Ande. La mitologia Inca attribuisce ai tre livelli della vita la simbologia di tre animali: il mondo basso è legato al serpente, questo mondo alla figura del puma e il mondo superiore al condor. La città di Cusco per la sua conformazione fu fondata in onore del puma, mentre l’eterea evanescenza dell’irraggiungibile Machu Picchu fu fondata con le sembianze del condor. I chiassosi festeggiamenti vanno lentamente spegnendosi, ma noi crolliamo ben prima che il silenzio cali etereo sulla città. DICIOTTESIMO GIORNO La notte per noi trascorre in modo terribile, sia per la scomodità del giaciglio che per i rumori che provengono dal tetto dove ad un tratto sembra che si sviluppi una tremenda lotta tra gatti inferociti. Alle otto del mattino siamo già in fuga con le valigie per rifugiarci da Cesar che dopo un attimo di sorpresa ci accoglie incredulo; le camere della sua posada risultano minuscole ma decisamente più pulite e confortevoli del nostro precedente alloggio. La città è ancora assonnata e stentiamo a capire se sia perché oggi è il giorno di Natale o se per l’abitudine diffusa che abbiamo riscontrato fino ad ora in Sudamerica di iniziare la giornata molto tardi. Ci aggiriamo per le vie di Cusco senza una meta precisa, le vie a prima vista sembrano molto pulite anche se l’odore di piscio diffuso ovunque ci fa riflettere. La Plaza de Armas è animata e chiassosa, nei suoi dintorni aprono giusto ora i battenti mercatini più o meno turistici, ma la cosa più strana che notiamo subito è che le chiese sono chiuse. La prima impressione che abbiamo girando per la città e nei contatti umani che ne riceviamo, è che il turismo abbia invaso la cultura di questa città almeno quanto ha accentuato il grado di arroganza e di maleducazione dei peruviani, non tutti certo, ma la maggior parte non presenta nessuna remora nel cercare di approfittare dei turisti e nel mostrare disprezzo nei loro confronti se contraddetti. Il cielo, che di prima mattina sembrava diventare azzurro, è ora coperto di soffici nuvole grigie che emettono inequivocabili borbottii, fino a quando da un cielo squarciato dai fulmini inizia a cadere una pioggia copiosa ed insistente. La gente rifugge, i mercati scompaiono in fretta, le vie acciottolate si colorano di lucido nella loro triste e fredda solitudine di un giorno di pioggia. Ci rifugiamo in un bar con vista piazza ad attendere che i bagliori del cielo e la pioggia concedano un attimo di tregua, in modo da poterci rifugiare in camera ad attendere che questo atipico giorno di Natale volga al termine. Siamo a tavola nell’accogliente e calda casa di Cesar, guardo fuori dalla finestra come da un acquario le luci di Cusco che con la pioggia sembrano ancora più brillanti e penso. Tra pochi giorni raggiungeremo Machu Picchu, la meta finale della nostra corsa verso nord, l’evanescente città condor dell’impero Inca, lo sfuggevole mondo superiore. Mi sembra di vivere un viaggio nel viaggio, uno fatto di fatica e di libertà, vissuto freneticamente nella rincorsa di un sogno, l’altro fatto di tempi dilatati, più controllato, meno frenetico, ma schiavo dei mezzi di trasporto e di percorsi prestabiliti volti alla ricerca di una meta senza avere ben chiaro quale essa sia. Non so cosa attendermi da questo incontro e nemmeno dai giorni che ci riporteranno a Santiago, spero solo che ne valga la pena perché al Perù turistico visto fino ad ora avrei di certo preferito sostituirvi la solitudine dei grandi spazi sconfinati. DICIANNOVESIMO GIORNO Ci mettiamo subito in moto per visitare i siti cerimoniali situati nei dintorni di Cusco, la guida li indica come raggiungibili a piedi in circa un’ora e trenta e decidiamo di avviarci lungo la calle Pumacorca che sale a nord dritta fino al limite della città per trasformarsi poi in una scalinata che si perde nella vegetazione. Prima di uscire dall’abitato incontriamo gli ultimi negozi turistici e qualche ambulante che vende cibo e bevande e ne approfittiamo per una spremuta d’arancia fresca e dissetante prima di arrampicarci fino a Sacsayhuamán. Risaliamo affannati la scalinata che ci porta a quasi 3.700 metri di quota e al nostro arrivo troviamo ad attenderci un‘area archeologica cinta da ampie mura ciclopiche e sparpagliata su oltre tremila ettari. Il sito è collocato circa due chilometri a nord di Cusco e sembra sia stato edificato in onore del Dio Inti per il quale ogni anno, in occasione del solstizio d’estate, vengono celebrati riti sacri. Vista dall’alto, almeno prima che gli spagnoli portassero via una gran quantità di pietre, la conformazione del sito ricorda la testa di un puma e la maggioranza degli archeologi concorda con il fatto che il sito sia il completamento del corpo del puma, simbolo del mondo di mezzo e guardiano delle cose terrene, da cui deriva per intero la pianta cittadina di Cusco. Il grandioso complesso cerimoniale presenta un triplice ordine di cinte murarie, lunghe trecento metri, realizzate con enormi massi di pietra (porfido e andesite), connessi con grande precisione. Questo inizialmente fece pensare erroneamente ad una fortezza, ed il fatto che la battaglia conclusiva con Pizarro si combatté su questo suolo ne rafforzò per molti anni l’errata immagine. Ripreso il cammino sulla strada principale dopo circa un chilometro e mezzo troviamo Quenqo, un piccolo sito cerimoniale immerso nel verde e situato a due passi dal piccolo pueblo di San Blas. Da qui seguiamo la strada che continua a salire tra prati verdeggianti e pascoli orlati da qualche albero ad alto fusto, e percorriamo quasi sei chilometri di cammino piacevoli, ma discretamente faticosi, prima di raggiungere il sito di Puka-Pukara. Il cielo è grigio avorio da questa mattina e ora inizia a lacrimare qualche sottile goccia di pioggia. All’ingresso del sito, che in realtà non sembra presentare particolari attrazioni, ci si avvicina un uomo dai modi gentili che con fare rilassato ci spiega di essere un antropologo e se lo desideriamo può spiegarci il sito dal punto di vista Inca; se rimarremo soddisfatti potremo fare un’offerta di dieci sol. Confesso di essere molto prevenuto verso una popolazione che fino ad ora non ha mostrato nessun disinteresse verso nulla, ma dieci sol sono una cifra talmente irrisoria che vale la pena provare. Il sito è piccolo e appare come un grosso altare che domina la valle, all’interno dello stesso ci vengono illustrati diversi luoghi “sacri” o meglio, visto che il sito era frequentato dalla casta sacerdotale, luoghi in cui i novizi imparavano a comunicare con la Pachamama e ad apprendere i segreti architettonici delle città sacre; all’interno del sito è anche presente un piccolo modello roccioso che visto dall’alto ricorda in tutto e per tutto la città di Machu Picchu. Al termine della visita possiamo dire di avere una visione più completa del mondo Inca e di aver ben investito i nostri dieci sol. Qualche centinaio di metri più avanti, lungo la strada principale, troviamo l’ultimo sito in ordine di distanza da Cusco: Tambomachay. L’insediamento sembra essere nato in realtà dalla divinizzazione di un’antica fonte d’acqua, tutt’ora attiva, che i sacerdoti consideravano la fonte dell’eterna giovinezza. Ritornati verso la città, a bordo di uno dei tanti “micros” che servono la zona, ci facciamo lasciare nei pressi di Sacsayhuamán per ridiscendere a piedi verso la città e quando rimettiamo piede a Cusco il cielo si fa nuovamente scuro e minaccioso. Terminiamo la giornata curiosando nei vari musei cittadini mentre fuori il cielo scarica violentemente le sue nubi gonfie d’acqua; il clima in questa area del Perù è caratterizzato da una temperatura media che è pressoché costante tutto l’anno e a fare la differenza tra una stagione e l’altra è proprio la pioggia che in questo periodo cade piuttosto copiosa. Domani lasceremo le vie di Cusco, certamente più pulite di altri luoghi ma anche battute da un alto numero di mendicanti che chiedono l’elemosina; non ne avevamo visti fino ad ora una così alta densità. I vicoli di Cusco sono densi di madri che vagano in cerca di elemosina e di figli che le seguono silenziosi; una questua senza dignità che mi chiedo se sia figlia dell’intenso turismo che ha raggiunto questa zona o della snaturalizzazione culturale e sociale portata al tempo della conquista spagnola, come se potesse in qualche modo fare la differenza quale tipo di colonizzazione abbia arrecato danno. Si tratta in ogni caso di qualcosa di imposto dall’esterno che ha minato le fondamenta della cultura esistente, ledendola nella dignità, nella ricchezza culturale e umana. Lasceremo una città bella nell’apparenza ma non nella forma, una città della quale non ci siamo mai sentiti realmente parte. Guardo la strada con le sue pietre lucide di pioggia, dalla finestra del bar nel quale stiamo sorseggiando un mojito, il camino è acceso e la sua fiamma sembra danzare al ritmo della musica jazz che esce dagli strumenti dei musicisti, riempiendo l’aria. È un’immagine carica e densa, ma che potrebbe essere traslata in qualsiasi città, in qualsiasi sobborgo del mondo, un’immagine di ragazzi, di musica, qualche drink e tanti sogni. È la nostra ultima sera a Cusco, domani percorreremo l’ultima tappa e attraverso la Valle Sagrada arriveremo ai piedi della città perduta.