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martedì 9 febbraio 2010

MACHIU PICCHU

VENTUNESIMO GIORNO Apro gli occhi stropicciati dal sonno, mi sento smarrito, stento a capire dove sono, e l’ululato del fiume mi riporta improvvisamente alla realtà. Guardo fuori dalla finestra, le luci giallastre e i fili della corrente sono ancora al loro posto e gruppi di peruviani si reggono a stento storditi dai fumi di una sbronza del sabato sera. Le loro losche figure trascinante nella notte si mischiano a quelle schive dei turisti che si muovono come ombre, scivolando verso la strada che sale a Machu Picchu; raccogliamo le nostre poche cose e ci mischiamo sbrigativamente a loro. La fila per l’autobus ci sembra già interminabile e per qualche istante mi viene voglia di imprecare…..non avremmo certo realmente preteso di esser soli?! Il cielo inizia a rischiarare lentamente sulle nostre teste, combattiamo l’attesa e l’aria tagliente con un tè caldo, poi è finalmente il nostro turno. Saliamo sull’autobus trattenendo a stento il fastidio dovuto agli altri chiassosi occupanti, percorriamo una strada di ripidi tornanti, immersa nella vegetazione e nel fumo biancastro della nebbia; fuori dai finestrini possiamo vedere solo grigie nubi e vegetazione lussureggiante avvolte nel chiarore dell’alba. Alle sei in punto i cancelli si aprono, mettiamo finalmente piede nella città perduta, tutto è avvolto da una nebulosa aura di mistero, i turisti si sparpagliano in fretta e quella che prima sembrava una folla oceanica in un attimo si dissolve come fumo. La cittadella pare destarsi in questo istante da un sonno eterno e nella luce soffusa del mattino le pietre sembrano uscire dall’incanto di una fiaba, persino i lama appaiono svogliati all’incedere del giorno. Attraversiamo le rovine con religioso silenzio e grande stupore, pronti a captarne ogni minima sfumatura e in questo stato di contemplazione raggiungiamo l’ingresso del sentiero che porta al Wayanapicchiu: la montagna sacra che sovrasta la cittadella. Al termine di una breve attesa poniamo le nostre firme nel registro d’ingresso e varchiamo la soglia, il sentiero è umido e la folta vegetazione trasuda ovunque di rugiada. I picchi circostanti sono avvolti dalle nubi che salgono e scendono lungo le ripide coste rocciose. La salita si dimostra subito impervia e faticosa, i gradini di roccia sono a tratti scivolosi e i passaggi più difficili sono stati equipaggiati con corde di sostegno; la risalita necessita dell’impegno di tutti i nostri sensi fino a quando, varcato l’ultimo stretto passaggio, non raggiungiamo la vetta. Mi guardo intorno in cerca di un appoggio visivo, davanti ai miei occhi ho solo l’immagine impalpabile di candide nubi bianco latte da dove a tratti sbucano ritagli di foresta; per un istante ho l’impressione di non essere altro che lo sguardo di un condor. In fondo alla valle, annunciate dal loro urlo infaticabile, scorrono le acque color caffèlatte dell’Urubamba che di tanto in tanto si mostrano tra nubi vanitose. Il vento tagliente del mattino soffia delicato accarezzandomi il volto, sparuti voli di uccelli che si gettano nel vuoto e ritornano, dopo una breve assenza, a compiere virate che ricamano l’aria, mi ricordano che siamo giunti sulle cime impervie dove un tempo osavano solo i condor e gli Inca. Il giorno avanza inesorabile e le nubi danno l’impressione di danzare mentre sollevandosi da terra ascendono al cielo. Là in fondo, sotto ai nostri occhi, le rovine di Machu Picchu sembrano tante piccole costruzioni di cartapesta. La nebbia svanisce nel cielo che ora si veste di un azzurro rassicurante, tutto intorno si apre l’orizzonte con il magnifico spettacolo delle Ande nella loro imperfetta perfezione. La notte è finalmente dissolta e il Dio Inti abbraccia di nuovo la Pachamama nell’eterno ciclo di rinascita della vita. Siamo giunti all’estremo del nostro viaggio, nella città condor, dove il mondo delle cose terrene entra in contatto con il mondo superiore. Osservo le immagini davanti a me come se il mio corpo non mi appartenesse, come se io stesso fossi ciò che mi circonda. Sono l’evanescenza delle nubi, Sono la rondine che compie voli acrobatici e Sono lo stesso vento che la sorregge. Sono l’acqua che gronda limpida e pacifica dalle piante e Sono quella fangosa e impetuosa che scorre qualche centinaio di metri più in basso. Sono la dura pietra esterna e Sono la terra molle del ventre del Mondo. Sono la luce del giorno e allo stesso tempo Sono l’oscurità della notte. Sono la rabbia e l’indulgenza, Sono la gioia e la tristezza, Sono l’amore e l’odio, in ogni istante muoio e in ogni istante rinasco nel respiro del Mondo.