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martedì 9 febbraio 2010

IL CERRO DEL DIABLO

Arriviamo a Uyuni con un’ora e trenta di ritardo, dobbiamo correre per recuperare i bagagli e riuscire a prendere il nostro bus per Potosì. Arrivati nella stanza grezza e spoglia che funge da biglietteria, sala d’attesa, deposito bagagli, ecc. ecc., ci rendiamo subito conto che siamo gli unici stranieri in attesa dell’autobus. Un militare in uniforme si aggira con volto torvo controllando i nominativi di chi salirà a bordo e noi ci rendiamo conto di come questa tratta di viaggio sia il nostro primo vero contatto con la triste e povera umanità boliviana. Quando finalmente compare il bus, ad un tratto abbiamo quasi paura di quello che ci aspetta; il mezzo di trasporto è vecchio, arrugginito e sporco e non abbiamo idea di chi siano i nostri compagni di viaggio: famiglie con bambini, ladri, persone comuni, non abbiamo metro di giudizio per sapere da chi diffidare. Scrutando i dintorni mi accorgo che senza saperlo abbiamo di certo scelto la compagnia di trasporto più popolare in circolazione. Dopo aver caricato i nostri bagagli sul tetto e controllato che venissero legati anziché scaricati dall’altro lato, saliamo a bordo. Ci sono toccati due posti in fondo all’autobus e mi chiedo se questo sia un bene o un male. Tutti intorno a noi sono vestiti con maglioni, giacche a vento e berretti di lana e la cosa più buffa è che mentre loro sembrano a proprio agio noi stiamo sudando in maniche corte! Diverse madri prendono posto per terra lungo il corridoio centrale lasciando i loro sedili ai figli, bambini con il naso moccoloso dagli occhi scuri e lo sguardo profondo, altri invece si siedono uno sopra l’altro. Dalla mia posizione è impossibile contare gli occupanti del veicolo, ma quel che è certo è che siamo decisamente in sovrannumero. Finalmente il rumore sordo del motore che si mette in moto per qualche istante copre risa, urla e parole. Finalmente la snervante attesa finisce e siamo di nuovo in viaggio. La strada appena usciti da Uyuni si trasforma subito in una striscia di terra che si inerpica sui colli, il cielo si sta facendo di china nera e gli ultimi raggi di luce disegnano l’aura dell’orizzonte alle nostre spalle; scruto le prime stelle che compaiono nel cielo e sospiro appoggiando la testa, che salta ad ogni buca, al vetro. Mi addormento e mi risveglio più e più volte, una tortura che sembra dovermi accompagnare tutto il viaggio. L’autobus arranca al minimo accenno di salita e corre all’impazzata quando la strada scende, fuori è la notte più nera mai vista e il mio sguardo vaga alla ricerca della poca luce delle stelle. All’interno del bus c’è ancora più buio e ora mi sembra quasi di percepire non più solo il respiro di Linda appoggiata alla mia spalla, ma quello di tutti gli altri occupanti; solo i bambini che piangono impertinenti rompono il silenzio quasi religioso che accompagna il viaggio. Saliamo, scendiamo, e risaliamo svariate volte, tra odore di polvere e di umani stipati come bestie, avvolti dal buio e dalla paura. Il freddo si è fatto intenso e penetrante da diverse ore e solo adesso comprendiamo tutto quel vestiario che sembrava fuori luogo ancor più che eccessivo. Cerchiamo di coprirci con quello che abbiamo per resistere al freddo, fino a quando il bagliore all’orizzonte, quasi ci fosse un albero di Natale dalle luci giallognole, ci annuncia la città di Potosì. Sono trascorse sei ore e trenta dalla partenza quando poggiamo piede al suolo nel freddo pungente della notte potosina. Sono le due di notte, scrutiamo il volto dei tassisti cercandovi un velo di umanità, cercando di scorgervi il volto del padre di famiglia piuttosto che quello del rapinatore senza scrupoli; abbiamo tutte le nostre cose con noi e farci derubare ora sarebbe alquanto tragico. In meno di dieci minuti siamo all’hotel dove una doccia calda ci rimette in sesto per una nuova notte segnata da continui risvegli dovuti alla quota; Potosì con i suoi 4.090 m s.l.m. è la città con oltre 100mila abitanti più alta del mondo. Potosí è soprattutto famosa per la sua miniera d'argento e da una stima relativa al 2005, conta 134.281 abitanti. La città è stata inserita nel 1987 nell'elenco dei patrimoni dell'umanità dell'UNESCO, come riconoscimento alla straordinaria quantità di monumenti industriali (tra cui acquedotti e laghi artificiali che fornivano acqua alle miniere d'argento) e architettonici presenti (la Casa de la Moneda, la chiesa di San Lorenzo e il centro storico della città in stile coloniale). La città sorge presso il Cerro Rico (montagna ricca) che la sovrasta con la sua imponenza. Le miniere d'argento del Cerro Rico sono oggi una delle poche risorse della popolazione, ma sono da sempre innumerevoli le vittime di tale lavoro tanto che fu nominata montagna del diavolo. Fondata nel 1546 come città mineraria, Potosì produsse ben presto ingenti ricchezze, diventando la seconda più grande città delle Americhe, con una popolazione di oltre 200mila abitanti, dopo Città del Messico; da questo importante centro minerario proveniva infatti la maggior parte dell'argento spagnolo. Il lavoro degli indios, sfruttati brutalmente da Francisco de Toledo, provocò la morte di migliaia di persone, non solo per le condizioni estreme, ma anche per l'avvelenamento da mercurio provocato dal contatto col metallo delle mani e dei piedi nudi, oltre che dall'inalazione dei suoi vapori tossici. Nel XVIII secolo la scoperta di importanti giacimenti nel Messico settentrionale, sfruttabili a costi inferiori, inferse un duro colpo al centro minerario di Potosì, e agli inizi del XIX secolo allorquando le miniere si esaurirono, la città contava soltanto 21mila abitanti; in quel periodo il prodotto principale estratto nel territorio circostante era già divenuto lo stagno. Vari tentativi sono stati compiuti da allora per trovare nuovi filoni argentiferi, con risultati il più delle volte inferiori alle aspettative, e ancor oggi alcune montagne dei dintorni continuano ad essere perforate alla ricerca del prezioso metallo. A causa delle precarie condizioni lavorative e della carenza di elementari misure protettive, i minatori hanno una bassissima aspettativa di vita, mediamente di solo 40 anni; i decessi sono causati principalmente dalla silicosi e dalle morti dovute ai crolli delle gallerie (si stima che nei secoli in cui durò lo sfruttamento del lavoro indio siano morti alcune centinaia di migliaia di uomini a causa dei crolli). TREDICESIMO GIORNO Alle otto siamo già in piedi, con le narici sature dell’odore stantio di muffa che riempie la stanza senza finestre nella quale siamo alloggiati; c’è un solo motivo principale per cui siamo arrivati fino a qui, le miniere d’argento. Ricordando l’avventura della notte e il modo in cui siamo giunti in questa città ripenso alla moto lasciata per strada. Ripenso al viaggio vissuto fino ad ora e a quel che sarà, di certo diverso nella forma. Se fossimo arrivati fino a Uyuni in moto e avessi attraversato il salar su due ruote, realizzando il mio sogno fino al punto minimo desiderato, probabilmente ora non saremmo qui. Quasi sicuramente avremmo rinunciato alla deviazione per Potosì a causa della strada dissestata e del tempo che ci era diventato tiranno, avremmo puntato prima verso la città di Oruro e poi a La Paz diretti verso quell’immensa macchia azzurra che colora la mappa: il lago Titicaca. Ci ritroviamo invece qui nelle ripide vie di Potosì in un sabato di dicembre e stiamo per prendere parte all’escursione organizzata più realistica e forse più rischiosa che si possa desiderare di vivere in terra boliviana. É quasi senza rendercene conto che ci troviamo a seguire la nostra giuda nelle vie sgangherate della parte alta della città; siamo io, Linda e un padre che accompagna il proprio figlio a vedere un pezzo della storia del suo paese. Veniamo accompagnati in una stanza grigia e spoglia, alle pareti sono appese tute e caschi anonimi, mentre numerose paia di stivali marroni schizzati dal fango grigiastro sbucano da sotto le panche di legno grezzo. Veniamo fatti vestire, mi infilo la tuta impermeabile sopra gli abiti e indosso i freddi stivali di gomma nei piedi. Ci viene porto il casco e spiegato il funzionamento della lampada, dopodiché la guida ci spiega che ora faremo una sosta al mercato dei minatori ed infine andremo all’ingresso della miniera. Le bancarelle del mercato sono disseminate lungo una strada tortuosa che sale verso il Cerro Rico, tutte vendono la stessa cosa ed è probabilmente solo per una questione di legami a noi sconosciuti che i minatori ne preferiscono una piuttosto che un’altra. Grossi sacchi pieni delle foglie della preziosa pianta di coca giacciono ovunque, ed oltre a quelle vengono venduti candelotti di nitroglicerina in pasta, nitrato di ammonio, micce e alcool a 90°. La nostra guida ci spiega con dovizia di particolari usi e funzioni di ogni cosa: la coca, per energizzare e sentire meno la fatica, viene masticata a lungo in boli che tenuti in bocca e rigirati con la lingua rilasciano lentamente il loro principio attivo; la nitroglicerina in pasta, assolutamente stabile rispetto alla più famosa sorella liquida, viene inserita nei fori praticati nella roccia, fori che vengono poi riempiti con il nitrato di ammonio che funge da amplificatore della detonazione; e per finire ci spiega che l’alcool a 90° viene bevuto a sorsi dai minatori per stordirsi e sopportare la vita sotto terra. Noi facciamo scorta di coca e bevande da donare ai lavoratori come pegno per l’ingresso nelle miniere, mentre i nostri compagni d’avventura comprano un candelotto di nitroglicerina con miccia......come souvenir da portare a casa?! La montagna ci sovrasta, ora siamo davanti ad una delle tante entrate nelle viscere di questa roccia che da secoli segna vita e morte degli abitanti di questa città. Non si può dire che qui ci sia una miniera o tante miniere, ma piuttosto che questa montagna sia “la Miniera” per eccellenza, dopo l’età della conquista spagnola dove l’argento correva a fiumi ci fu quella in cui il posto d’onore fu preso dallo stagno. Erano epoche in cui gli abitanti furono sfruttati come schiavi, dove la vita di chi periva sotto la montagna non valeva nulla, ma poi dalla fine del ‘900 siamo giunti al paradosso più completo. I grandi proprietari abbandonarono una montagna ormai saccheggiata da secoli, divenuta troppo costosa e pericolosa da sfruttare. Accadde così che i minatori si siano riuniti in cooperative e che siano diventati schiavi e allo stesso tempo aguzzini di sè stessi. Ci fermiamo a pochi metri dall’ingresso, l’imbocco di una galleria buia e puntellata da travi di legno, è davanti a noi. I binari di una rotaia, che vede transitare su di sè ogni giorno tonnellate di roccia spinta con la sola forza delle braccia, vengono inghiottiti dal buio, e di tanto in tanto con un rantolo avvertono dell’arrivo di un altro carico. Il suolo intorno a noi è grigio piombo come le tute dei minatori, il cielo azzurro è tappezzato da nubi che corrono veloci, nubi talmente vicine che è quasi reale la sensazione di poterle afferrare allungando le dita. Sento il richiamo delle tenebre, la voce cupa della montagna che ci chiama dalle sue viscere, una sorta di canto dell’inferno a cui i minatori sembrano non saper resistere, come un canto melodioso di sirene per marinai nella tempesta. Conversiamo con i minatori addetti a smistare le pietre fuori dalla galleria, faccio qualche domanda sui niños mineros, ma dopo un primo momento di imbarazzante silenzio mi rassicurano sul fatto che i lavoratori di “questa” miniera sono tutti maggiorenni. Certo “questa”, perché delle altre decine di ingressi nella montagna non è dato saperlo, ognuno è una storia a sé, una cooperativa a sè, e abbiamo il forte dubbio che non siano pochi i bambini che ancora lavorano nelle miniere di Potosì. Ci viene detto che i lavoratori restano in miniera in media otto ore al giorno per cinque giorni a settimana, ma che il loro stipendio dipende anche da quanto la miniera produce e che quindi non è raro che chi ha necessità faccia turni più lunghi o venga al lavoro anche di sabato. La guida ci sprona: “vamos por la ruta sin retorno”, e con il pensiero della strada senza ritorno lasciamo che la tenebra ci inghiotta in questo atipico sabato di dicembre. Le volte sono puntellate con travi a tratti marcilente, camminiamo con passo incerto e titubante, il suolo è umido e viscido e l’odore dei veleni sprigionati dalle viscere della terra ci riempie le narici. Illuminati solo dalle nostre torce, proseguiamo per diversi minuti nel cuore della montagna; per due chilometri ci diranno alla fine, con davanti e dietro a noi solo buio. Ho paura, mi sento come un topo in trappola, penso ai morti, alle anime prigioniere di questa montagna, mentre intanto il suolo si è fatto ancora più viscido e i piedi affondano in pozzanghere melmose. Tutto intorno a noi sento solo il rumore dei nostri passi e il sibilare incessante dei tubi che portano l’aria nei cunicoli. Quando ci facciamo di lato per scansare due ragazzi che spingono a forza un carrello carico di pietre verso l’uscita, ho ormai perso la sensazione dello spazio e del tempo; l’uscita….in questo momento non saprei probabilmente nemmeno come ritrovarla l’uscita! Proseguiamo facendo qualche altra deviazione di galleria ed infine si apre davanti a noi una buca nel terreno dove una scala di legno pericolante scende di quindici metri nel sottosuolo. Affrontiamo titubanti una prima scala e poi dopo qualche decina di metri in una galleria a pari livello un'altra; sento il mio corpo strisciare verso il basso contro la roccia nuda e fredda, ora siamo due livelli sotterranei più in giù di dove abbiamo avuto accesso alla miniera ed ad almeno trenta metri sotto al livello di ingresso. L’aria è calda, la temperatura inizialmente fresca è salita in modo repentino; in alcune di queste gallerie si può arrivare fino a 45°C. Dapprima ci vengono illustrate alcune procedure per portare fuori la roccia estratta, poi ripercorrendo il percorso inverso ritorniamo con mio grande sollievo al livello zero. Siamo ancora nel cuore del Cerro del Diablo e procediamo in religioso silenzio fino a che non raggiungiamo una specie di camera dove alcuni minatori stanno perforando la roccia, ed altri ricoperti di fango e detriti procedono nell’infilare dei candelotti di nitroglicerina nelle fenditure create dalla trivella, soffiandovi infine il nitrato d’ammonio per riempire lo spazio rimasto. Assistiamo con premura a tutte le operazioni fino a quando le tredici micce che escono disordinatamente dalla roccia vengono accese, ed è solo allora che iniziamo a percorrere a ritroso il percorso iniziale. Ora procediamo a passo svelto dietro alla guida camminando un minuto o poco più, poi il nostro “Virgilio” scruta la volta di pietra della galleria e decide che siamo giunti nel luogo adatto alla sosta; nel frattempo i minatori che hanno accesso le micce ci passano accanto e continuano verso l’uscita per scomparire nella tenebra. Osservo la roccia nuda, grigia, venata di rosso e amaranto che ci circonda, ma in realtà sto aspettando con un nodo in gola che arrivi il primo botto. È sordo, cupo, la montagna vibra, poi veniamo investiti da un poderoso spostamento d’aria calda che ci sferza il viso, ci trapassa, e va diretta verso l’uscita. Contiamo le espolosioni, due, tre, quattro, i secondi che le dividono diventano frazioni di tempo equiparabili all’eternità, fino a quando anche l’ultimo suono cupo e l’ultima colonna d’aria calda ci investono. Tredici rintocchi di dinamite hanno scosso le fondamenta della montagna e forse ancor più le nostre. Riprendiamo il cammino verso il mondo esterno, ma prima di lasciare le viscere della terra dobbiamo rendere omaggio al Tìo: lo spirito che protegge i minatori. Il Tìo ha le sembianze di un diavolo ed in effetti era questa, in principio, la sua funzione. Una statua del demonio messa nelle miniere dai colonizzatori cristiani per ammonire i minatori a lavorare in quanto osservati dal demonio e puniti se non avessero fatto il loro dovere. La cultura crociata del terrore non aveva però fatto i conti con la cultura andina, una cultura dove non esistono Dei malefici, ma solo Dei. I minatori hanno così iniziato a venerare El Tìo come il Dio della miniera, colui che li proteggeva nel buio della tenebra, che rendeva fertile la madre terra facendo sì che producesse i frutti della miniera, cioè le pietre e i metalli preziosi, ed è così che il Tìo è venerato ancora oggi; una statua del demonio con un grosso fallo eretto a richiamare fecondità e abbondanza. Una statua alla quale vista ogni minatore non può sottrarsi prima di uscire dalla miniera e con la quale è obbligatorio condividere doni come foglie di coca, alcool e sigarette. La nostra guida ci racconta tutto questo con molto trasporto, poi dopo aver versato un goccio di alcool al suolo ed uno al Tìo, ne beve un sorso spiegandoci che ogni minatore deve condividere con gli Dei questo rito. Ci spiega anche che le donne sono escluse dalla miniera e che a loro è permesso solo lavorare all’esterno, nel caso in cui un familiare avesse perso la vita nella montagna e dovessero provvedere al sostentamento della famiglia. Ora l’uscita è vicina e sento già l’aria fresca che penetra nelle profondità della montagna, sento i miei stessi passi affrettati dietro di me che mi seguono per lasciarsi la tenebra alle spalle e procedere sicuri verso il mondo esterno; non abbiamo fortunatamente visto bambini in miniera, ma solo la fatica e la crudeltà di un mondo sommerso nel buio. La luce arriva abbagliante ad inondarmi gli occhi, faccio un respiro riempiendo i polmoni d’aria fresca e la vita d’improvviso ricomincia a fluire nel mio corpo. Nel frattempo un mantello grigio ha ricoperto la terra nascondendo l’azzurro del cielo; siamo di nuovo fuori all’aperto e ora il Mondo sembra avvolto da un velo di tristezza infinita. Ritorniamo in centro con il cielo che inizia a piangere lacrime fini ed invisibili mentre la città di Potosì si cala in un clima irreale e addormentato; in lontananza i fulmini cadono incuranti e fragorosi sulla vetta del Cerro del Diablo.