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martedì 9 febbraio 2010

NUESTRA SEÑORA de LA PAZ

Anche se per noi potrebbe essere un giorno qualunque oggi è sabato, ma mentre ci aggiriamo per mercati e negozi in cerca di qualche maglia in lana di alpaca, Potosì rimane avvolta nel grigiore e nell’apatia. La lana pregiata proveniente da questo splendido camelide, che popola gli altipiani andini, è sempre più difficile da trovare sulle bancarelle dove venditori senza scrupoli tentano di rifilare agli ignari turisti fibre sintetiche raccontando loro che si tratta di vero alpaca. Il maggior pregio di questa fibra, oltre alla morbidezza, è quello di non contenere lanolina, non infeltrire e non creare allergie. Nel tardo pomeriggio la città inizialmente assopita si desta lentamente e le strade prendono forma. L’aria è fredda, frizzante, per la prima volta mi guardo intorno: qualche negozio addobbato, le luci, e mi rendo conto che tra cinque giorni sarà Natale, il nostro primo Natale lontano da casa. È forse il clima invernale a renderci apatici come lo era la città fino a poco fa, ma dopo aver percorso in lungo e in largo le vie del centro ora vive ed animate, non troviamo niente di meglio da fare che chiuderci in un bar a sorseggiare un buon tè caldo. Questa notte ci attende un lungo viaggio attraverso l’altopiano, domani all’alba ci sveglieremo tra le vie della capitale: Nuestra Señora de La Paz. La notte ci priverà della vista mentre accanto a noi scorreranno il distretto di Oruro, il lago Poopò, il lago Uru Uru e altre meraviglie della natura. Saremo ciechi verso il mondo, ma guadagneremo però parecchia strada e riusciremo forse a recuperare giorni fino ad essere a Cusco, quello che gli Inca consideravano l’ombelico del Mondo cosmico, per la notte di Natale. Quando lasciamo Potosì la tenebra ha calato la sua scure sulla città che ora è un unico grande ingorgo inestricabile, tanto che abbiamo quasi paura di poter perdere l’autobus. La stazione è incasinata, ma è certo qualcosa di ben più definito di quella di Uyuni; controlliamo che le valigie vengano caricate e prendiamo i nostri posti in attesa di partire per una lunga notte di viaggio. QUATTORDICESIMO GIORNO L’autobus non è poi così scomodo e ricorda lontanamente la comodità degli autobus cileni, ma la temperatura che arriva dall’esterno è glaciale e risulta difficile non risvegliarsi più volte tremanti; nella notte percepisco la sosta ad Oruro per ricadere subito in un sonno leggero e poco riposante. Quando l’alba rischiara il cielo le case stanno correndo ai bordi della strada da qualche chilometro, siamo a El Alto la città satellite che domina la conca naturale dove si adagia La Paz. Posizionata a quasi 4.000 m s.l.m., El Alto è ormai diventata un tutt’uno con la zona nord di La Paz, una zona di quartieri poveri che degrada verso il centro del grande imbuto che accoglie la città, una zona per altro estremamente strategica in quanto tutti i collegamenti importanti come autostrada, aeroporto, ecc, transitano da qui e che quindi è spesso teatro di proteste. A dispetto della fama che ha La Paz la stazione dei pullman non sembra particolarmente animata e anche il resto della città prende forma lentamente. Ci sistemiamo nel cuore coloniale della città, in calle Sagarnaga, a due passi dal Mercado de las Brujas e dal centro cittadino, dove nelle ripide vie acciottolate si srotolano i colori e le usanze più particolari dei boliviani: amuleti, feti di lama e pozioni d’amore. A pochi passi dall’hotel si trova anche il museo della coca, direi decisamente unico nel suo genere, e visto che probabilmente per il fatto che oggi è domenica mattina sembra che la movida cittadina fatichi a prendere quota, decidiamo di farci un giro. L'uso delle foglie di coca attraverso la masticazione sembra che risalga ad un paio di millenni prima di Cristo, inoltre trattandosi di una pianta tropicale il suo uso non era, né lo è oggi come spesso si crede, relegato solo alle popolazioni andine che, evidentemente, dovevano procurarsela commerciando con le popolazioni delle aree tropicali (yungas). Sembra comunque storicamente assodato che le foglie di coca non fossero un bene di largo consumo, ma rimasero a lungo ad uso quasi esclusivo dei sacerdoti. La crescita della produzione e la diffusione al consumo delle foglie di coca su larga scala è stata infatti opera degli spagnoli durante i primi decenni della conquista. Nell'uso delle foglie di coca i conquistadores trovarono infatti un ottimo alleato per migliorare la produzione schiavista nelle miniere di Potosì. Le foglie venivano offerte agli schiavi indigeni per dare loro maggiore resistenza e ridurre la fame e la sete, ed inoltre spesso venivano utilizzate come salario; nel corso del XVI secolo la produzione di foglie di coca passò da 100 tonnellate a più di 1.000, quasi tutte assorbite dalle miniere d'argento di Potosì e dintorni. Amerigo Vespucci fu poi probabilmente il primo europeo a descrivere la masticazione di foglie di coca in uso presso le popolazioni del Nuovo Mondo. Ancora oggi il 90% degli indigeni mastica le foglie secche mescolate con una piccola quantità di sostanze che fungono da catalizzatori (ceneri e minerali) in modo da estrarne i principi attivi che, una volta disciolti nella saliva, vengono a poco a poco deglutiti per assicurarne effetti duraturi. La parola coca deriva invece da kuka, il nome proprio della pianta in lingua Quechua. È però anche possibile che la parola coca derivi dal linguaggio di una popolazione indios antecedente all'avvento degli Inca, gli Aymara. In lingua Aymara “coca” significa infatti semplicemente "la pianta", quasi a volerla definire per importanza come la madre di tutte le piante. Nonostante questo bisognerà attendere però il diciannovesimo secolo perché si inizi a capire che cosa rende le foglie di coca così uniche. Nel 1860 Albert Niemann riuscì infatti ad isolarne il principio attivo, cui diede il nome di "cocaina" e fu in questo periodo che molti scienziati europei ed americani iniziarono a studiare gli effetti psicostimolanti della cocaina e delle foglie di coca. Numerosi scienziati descrissero con grande chiarezza e dovizia di particolari gli effetti della sostanza e nel 1880 le foglie di coca entrarono nel Prontuario Farmaceutico degli Stati Uniti d'America, mentre la cocaina fu approvata come medicinale nel 1890. Sei anni prima in Europa, l'allora giovane neurologo viennese Sigmund Freud aveva applicato i suoi studi sulla sostanza, che egli raccomandava come toccasana per moltissime malattie, tra cui la depressione di cui era afflitto e dalla quale diceva di curarsi con basse dosi croniche di cocaina. Nel medesimo anno Koller, un oculista amico di Freud, sperimentò la cocaina come anestetico in diversi interventi chirurgici all’occhio, creando le basi razionali per l'anestesia locale, e fu sempre nel 1884 che il chirurgo americano Halsted dimostrò la capacità della cocaina di bloccare l'attività nervosa e propose il suo impiego nella prima anestesia tronculare. Verso la fine del diciannovesimo secolo poi, il giovane chimico corso Angelo Mariani realizzò un vino a base di coca. La bevanda fu subito acclamata da cantanti d'opera e musicisti come ottimo rimedio contro il mal di gola, come stimolante e come tonico, tanto da far meritare al suo inventore la Medaglia dell’Accademia Medica di Francia. Lo zar, i regnanti inglesi, i sovrani svedesi e norvegesi, il re Norodom di Cambogia, il comandante delle forze francesi in Indocina, il comandante generale dell'esercito britannico e persino il Papa Leone XIII furono assidui consumatori del vino "drogato", tanto che il suo creatore ricevette dal successore di Pietro una medaglia "ad honorem". Molti intellettuali del tempo facevano uso infatti del Vin Mariani; fra essi gli scrittori Dumas figlio, Verne, Rostand, Zola, France e Ibsen, le divine Sarah Bernhardt ed Eleonora Duse, i compositori Gounod e Massenet, gli artisti Rodin, Robida e Chéret. A questo punto anche gli imprenditori americani giudicarono vantaggioso investire nel mercato dei prodotti a base di coca e fu cosi' che J. S. Pemberton lanciò sul mercato la French Wine Coca, indicata come ottimo stimolante nervoso e tonico. Il proibizionismo mise poi fuori legge tutte le preparazioni a base di alcool, e Pemberton fu costretto a ripiegare inventando quella che diverrà una delle più famose ed imitate bevande della storia: la Coca-Cola, ottenuta con estratto non alcoolico di foglie di coca e noci di cola africana, disciolta in un dolce sciroppo di caramello. I risultati di studi medici e scientifici in seguito indussero diversi governi americani a proibire l'uso della cocaina. In alcuni stati americani il commercio e l'uso della cocaina senza prescrizione medica furono dichiarati illegali e l'eliminazione dal "Pure Food and Drug Act", del 1906, costrinse i produttori di Coca-Cola ad eliminare la cocaina dalla ricetta. Il Dr. Mariani, nonostante avesse avvertito la clientela e il mondo scientifico che il suo elisir era ottenuto con un estratto della foglia di coca e non con l'alcaloide puro come era il caso della Coca-Cola, subì un tracollo finanziario e morì in povertà nel 1914, anno in cui fu emanato l’"Harrison Narcotic Act", col quale sia la coca che la cocaina furono classificate fra i narcotici. Lo splendore della cocaina era così durato in occidente solo trent’anni, mentre nel Sudamerica l'uso delle foglie di coca continua indisturbato da almeno quattromila anni. Nel museo, piccolo ma ben strutturato, viene fatta una buona distinzione tra l’uso di foglie per masticazione e il potente narcotico ricavato dalla macerazione di grandi quantità delle stesse, dai benefici che la masticazione delle foglie in modica quantità apporta alle popolazioni andine, dalla distruzione che invece è provocata dall’uso sistematico della cocaina, ma soprattutto viene difeso a spada tratta il diritto di utilizzo e coltivazione della pianta da parte delle popolazioni indigene. Quando usciamo all’aperto La Paz è qui, immobile, dove era al tempo della sua fondazione, dove quasi cinquecento anni fa sorgeva il villaggio di Chiquiago, abitato da minatori Aymara, nella valle del Chuquiago Marka (o Río Choqueyapu). Il suo nome completo Nuestra Señora de La Paz commemora la pace arrivata dopo la guerra civile che seguì l'insurrezione di Gonzalo Pizarro, fratello del più famoso conquistador Francisco Pizarro, contro Blasco Núñez de Vela, primo viceré del Perù. La città si sviluppò da subito come centro politico ed economico e la sua importanza era dovuta anche alla sua posizione strategica, congiungeva infatti l'Alto Perù, dove era situata, al Basso Perù. Inoltre era sulla strada percorsa per trasportare l'argento delle miniere di Potosì al porto di Lima ed allo stesso tempo era sita all'imbocco della Via degli Yungas utilizzata per l'approvvigionamento di prodotti agricoli e di foglie di coca. L'orizzonte della città è dominato da meravigliose montagne, sulle quali svetta la cima del Nevado Illimani con i suoi 6.439 m s.l.m., che viene chiamata dagli indigeni abuelo de poncho blanco (nonno dal poncho bianco). La Paz non è famosa per opere d'arte di particolare rilievo, ma è una città piena di vita e sono soprattutto i suoi abitanti a renderla unica ed indimenticabile a chi la visita. Usciti dal museo scendiamo verso il centro mischiandoci ai passanti che si fanno sempre più numerosi. Ora la città si è animata e ci perdiamo da subito negli odori del Mercado Lanza, il mercato alimentare più grande di La Paz, per scendere poi sempre più in basso verso il cuore “ricco” della città, quello che giace 400 metri più in basso di El Alto, e che ha anche l’aria decisamente più europea. Nel primo pomeriggio il cielo si fa grigio di dense nubi e decidiamo di ripiegare in fretta verso l’hotel. Nel tragitto osservo questo mondo che mi si crea intorno, ed è buffo vedere come ora i mercati cittadini brulichino di vita e come tutto sia diventato un grande calderone di esseri umani; un miscuglio dove le donne avvolte nei loro costumi indigeni si affannano per vendere muschio colorato, statuine e luci di Natale. Mi rendo conto in che tragico modo abbia influito il colonialismo sugli usi di queste popolazioni, quale sottomissione hanno dovuto subire popolazioni che da secoli vivevano in pace con la natura, nell’eterno ciclo della vita, e che ora arrancano in una moderna e avvilente povertà. QUINDICESIMO GIORNO Dopo diversi giorni in quota sembra che finalmente il corpo si sia abituato in maniera definitiva all’altura, per la prima volta passo una notte decisamente riposante e senza fastidiosi risvegli che mi lasciavano a rigirarmi ore nel letto. Oggi usciamo decisamente presto, ci siamo aggregati ad una gita organizzata e siamo diretti a Tiahuanaco, il sito archeologico probabilmente più antico del Sudamerica, che si trova ad un’ora di viaggio da qui. Lasciamo La Paz già brulicante di primo mattino e risalendo per l’autostrada che dall’alto domina la città raggiungiamo El Alto; questa città nella città è anche considerata la capitale del popolo Aymara in quanto molti discendenti dell’etnia originaria risiedono qui. Gli Aymara sono una popolazione che vive prevalentemente nelle vicinanze del Lago Titicaca tra il Perù, la Bolivia, il nord del Cile e il nordest dell'Argentina. In realtà non identifica un sotto-gruppo etnico vero e proprio, ma comprende tutto l’insieme degli individui che, pur appartenendo a differenti sotto-gruppi etnici, hanno come lingua madre una lingua appartenente alla famiglia aymara. L’umanità deve alla cultura aymara l’importante apporto dell’uso della patata: quando gli spagnoli conquistarono l'Impero Inca infatti vi trovarono la coltivazione della patata diffusa ovunque e con ben oltre duecento varietà. Gli antichi Aymara inventarono anche il procedimento di disidratazione della patata ai fini di conservazione e stoccaggio; questa patata disidratata (nota con il nome di ch'uñu o chuño) viene tutt’ora prodotta e consumata. Il procedimento si basa sulle condizioni climatiche della zona del Lago Titicaca, dove, ad altezze vicine ai 4.000 m s.l.m., i raggi solari sono particolarmente forti e ricchi di radiazioni ad alta energia, mentre le notti sono molto fredde. Le patate una volta raccolte vengono esposte alla luce solare ed al freddo notturno per due settimane così da esserne completamente disidratate; il ch'uñu con questo procedimento si conserva per anni. A El Alto facciamo sosta per caricare la nostra guida e nei minuti in cui rimaniamo fermi al bordo della strada abbiamo l’alta percezione di quanto sia viva e movimentata questa città; movimento che ci viene detto è in gran parte dovuto all’imminenza del Natale. Percorsa la città in tutta la sua lunghezza ci addentriamo in campagne coltivate, con mandrie di mucche e pecore al pascolo libero, dove le basse e bucoliche case fatte di terra sono scortate a vista, da lontano, dall’imponenza della Cordigliera Reale che con i suoi eterni nevai domina su tutto l’orizzonte. In circa un’ora e trenta di viaggio raggiungiamo la piana dove un tempo si sviluppava Tiahuanaco. La storia e l’importanza di questo sito sono tutt’ora altamente in discussione. Ufficialmente gli storici collocano la nascita della civiltà di Tiahuanaco nei primi secoli dopo Cristo e il suo declino intorno all’anno 1.000 d.C., tuttavia il basso tasso di interferenza con le popolazioni delle aree circostanti lascia aperti molti dubbi. Restano poi anche molti misteri in relazione ad alcuni dei reperti ancora visibili, come la Porta del Sole e il grande Monolito; in particolar modo la Porta del Sole, impostata sull’asse est-ovest e rivolta verso quest’ultimo punto cardinale, si trova ogni anno in allineamento perfetto con il Sole il giorno del solstizio d’inverno. Alcuni studiosi hanno datato la costruzione di questa opera intorno all’anno 12.000 a.C. e altri sostengono con non meno certezza che sulla sua stele siano rappresentati animali estinti da millenni. I reperti ritrovati nell’intera area non sono infatti poi così numerosi e ben conservati come dovrebbero, se pensiamo solo alle grandi opere che da migliaia di anni restano a testimonianza del passato o ai reperti ben più vecchi conservati nei musei, è quindi difficile credere che in meno di mille anni resti così poco a testimonianza di ciò che è stato. La visita del sito in sè stesso, al di là dell’aura di mistero che avvolge questa civiltà, non è un granché e nemmeno aggiungendo la visita al museo mi sentirei di giustificare un viaggio in zona appositamente per fare questa visita, a meno che non si sia archeologi ovviamente. L’aria gelida ora spazza tutta la valle e il cielo dapprima limpido si fa di cenere annuvolandosi repentinamente. Terminata la visita veniamo portati a pranzare in un ristorante tipicamente confezionato per razziare i turisti, dove mangiamo zuppa di quinoa, un piccolo cereale della zona, e carne di lama……che a giudicare dalla sua durezza è morto certamente di vecchiaia! Il momento del pranzo resta comunque una piacevole occasione di aggregazione e scambio con gli altri membri del gruppo; oltre a noi ci sono una coppia di brasiliani e alcune ragazze francesi che viaggiano sole. Quando muoviamo di nuovo verso La Paz il cielo è plumbeo, il vento si è messo a soffiare con violenza e in lontananza le nubi sono squarciate da fulmini bianchi e serpeggianti. Ad un tratto inizia a cadere una pioggia fitta e insistente che ben presto si trasforma in grandine, i chicchi sono talmente fitti che ci obbligano a sostare di lato e in poco tempo sulla strada, e nei prati tutto intorno, sembra che sia caduto un manto di neve. Ripreso il cammino sotto ad una pesante coltre grigia che sembra però aver esaurito il suo furore, entriamo a El Alto con la strada ancora bagnata e con gran parte della vitalità mattutina che sembra essersi dissolta insieme al bel tempo. Durante la discesa verso la città di La Paz ci fermiamo in un mirador che la domina; l’aria fredda mi sferza il viso e ripenso a quante volte avevo pregustato questo momento che a lungo ho immaginato di vivere arrivando in moto. Il corpo avrebbe iniziato a fremere di un brivido interno in un implosione di emozioni e in quel momento osservandola dall’alto avrei pregustato la sensazione di essere sul punto di far ingresso in un luogo sacro. La città è enorme, non tanto per il numero assoluto di abitanti, ma per le case basse che per contenerli tutti si espandono a perdita d’occhio abbracciando tutte le colline circostanti. Mentre il cielo inizia a piangere di nuovo mi riempio i polmoni di aria gelida, distolgo gli occhi dalla città alzandoli sull’orizzonte dove per qualche istante, attraverso le nuvole opache, traluce il bianco candido delle nevi perenni. Nuestra Señora de La Paz, sarà questo il ricordo che porterò per sempre con me. La città a differenza di El Alto è ora più animata che mai e poco prima dell’arrivo in stazione attraversiamo anche una manifestazione guardata a vista dai poliziotti in assetto anti sommossa. Ovunque nelle strade ci sono scritte e inneggi al presidente Evo Morales, entrato in politica come sindacalista dei cocaleros, i contadini coltivatori di coca, e poi diventato il primo presidente indio della storia boliviana (Evo Morales è di origine Aymara). Ha così dichiarato i principi fondanti del suo partito, il MAS: « Il peggior nemico dell'umanità è il capitalismo statunitense. È esso che provoca sollevazioni come la nostra, una ribellione contro un sistema, contro un modello neoliberale, che è la rappresentazione di un capitalismo selvaggio. Se il mondo intero non riconosce questa realtà e gli stati nazionali non si occupano nemmeno in misura minima di provvedere a salute, istruzione e nutrimento, allora ogni giorno i più fondamentali diritti umani sono violati. » Nei primi anni del suo governo ha attuato molte delle promesse fatte in campagna elettorale, prima tra tutte la nazionalizzazione delle riserve energetiche. Inoltre la creazione di un’assemblea costituente e la rettifica della magna carta, attraverso un referendum, per altro non previsto, hanno aumentato il consenso verso di lui. Nonostante questo non mancano tuttavia le critiche mosse nei suoi confronti a causa di alcune posizioni prese, o piuttosto prese a metà, inoltre la Bolivia rimane un terreno politicamente difficile anche a causa dell’elevata povertà e della grossa distinzione territoriale che esiste tra l’altopiano e la selva. Appena ritornati a La Paz ci immergiamo subito nelle strade che tracimano di gente, il cielo è ancora grigio e stende il suo mantello di nubi sopra alla città che ora si muove come un enorme formicaio impazzito. Percorriamo la Calle Illampu e i suoi dintorni, cuore indigeno dei mercati cittadini, dove tutto a prima vista sembra ruotare intorno all’imminente festività del Natale; osservando più a fondo però si nota come tutto ruoti in realtà intorno alla sopravvivenza e come la routine di vita quotidiana danzi festosa sull’orlo dell’oblio. Donne indie vestite nei loro abiti di festa, con la classica bombetta in testa, ambulanti, imbonitori, odori di cibo, colonne di fumo che si alzano dalle bancarelle e in fondo alla piramide sociale i lustrascarpe, con i loro passamontagna, i fazzoletti scuri a coprirne il viso e le mani nere di lucido che fremono in attesa di qualcuno che gli offra di guadagnarsi qualcosa da portare alla bocca. Domani lasceremo questo caleidoscopico Paese fatto di luoghi al limite del reale e di persone dallo sguardo triste e profondo. L’abbiamo percorso in fretta, quasi distratti dalle troppe bellezze che la natura ha creato in questo angolo di terra, ma non troppo in fretta per non accorgerci della diffidenza della gente verso “l’uomo bianco”. Un senso di inferiorità a volte mascherato ostentando sicurezza, un sentimento di profondo disagio che sembra radicato all’interno del DNA di molte persone; come dargli torto. L’uomo venuto da oltre oceano non ha fatto che distruggere culture, seminare morte, soggiogare popoli per sfruttare le loro risorse e annientare il loro passato. Possiamo forse biasimarli se nel loro patrimonio genetico non c’è amore incondizionato verso lo straniero? Credo che il mondo dovrà fare ancora molta strada per dimostrare a questi uomini che esiste la fratellanza e il rispetto tra i popoli prima che dal loro patrimonio genetico scompaia il gene della diffidenza.