L’aereo sta per atterrare, fuori dal finestrino le luci della pista
d’atterraggio si fanno largo nel buio della notte. È la terza volta da
quando siamo partiti per questo viaggio all’altro capo del mondo che
stiamo per posare le ruote a terra. Per tre volte abbiamo abbandonato la
solidità della crosta terrestre per fluttuare nella fluidità dell’aria. Siamo
scomparsi da un luogo pronti a riapparire in un altro dopo essere passati
attraverso il non luogo del volo, in un tempo che appare quasi
immateriale rispetto a quello che scorre a terra. Manca una quarta e
ultima tappa aerea all’appuntamento con l’avventura vera e propria,
quella del viaggio fatto di aria sulla faccia e suolo arido sotto ai piedi, ma
è questo che sta per terminare che ci consegna alla terra entro la quale
prenderemo confidenza con il Nuovo Mondo che ci aspetta nei prossimi
trenta giorni. Abbiamo sorvolato le irte vette andine quando la tenebra
australe aveva già steso il suo manto su di loro e nonostante la notte
fosse nera come inchiostro ho percepito chiaramente la loro presenza
qualche chilometro sotto la fusoliera dell’aeromobile; è stato allora che
una sensazione mista di gioia e inquietudine mi ha percorso tutto il corpo
come un brivido. Quante storie di uomini intenti nell’eterno ciclo di lotta
e di ricongiungimento con la natura si nascondono tra vette, pampas,
deserti e altipiani legati insieme da questa spina dorsale che corre lungo
tutto il continente sudamericano!? Stiamo per toccare per la prima volta
nella nostra vita la terra sotto l’equatore e dentro di me è tanta la voglia
di infrangere questo limite.
Appena messo piede fuori dal portellone annuso l’aria come
farebbe un cane in cerca di odori famigliari, me ne riempio i polmoni e
mi pare che stranamente assomigli tanto a quella di casa. Non ci sono
odori o aromi esotici ad accoglierci, niente spezie orientali, niente umori
caldi dei tropici, soltanto il leggero profumo di una notte di inizio estate
carica del suo inconfondibile odore umido e leggero. In fondo cos’altro
avrei potuto aspettarmi in questo mondo rovesciato? È il 7 dicembre e
all’inizio astronomico dell’estate australe non manca molto. Il clima di
Santiago del Cile non è molto diverso da quello continentale europeo ed
è forse per questo che molte genti di quel continente vi hanno trovato
rifugio senza poi saper più lasciare queste terre ricche di cultura e di
storie da raccontare. L’aeroporto non è diverso da tanti altri scali che
abbiamo visto per il mondo, a questa ora della sera sembra però avvolto
da un soffice guscio di indifferenza; recuperiamo i bagagli e dopo aver
sbrigato velocemente le formalità per l’ingresso cerchiamo un luogo
sufficientemente comodo dove passare la notte. L’area partenze
sembrerebbe fare al caso nostro, non fosse per una numerosa comitiva
urlante di studenti che rumoreggia con urla e schiamazzi dando vita nel
grande atrio vuoto, sotto gli occhi stanchi e indifferenti di una guardia, a
folli corse di carrelli per bagagli. Chiudo gli occhi nonostante tutto, quasi
ipnotizzato dagli ammiccanti monitor luminosi che indicano i voli in
partenza l’indomani mattina.
Nel dormiveglia che mi porta verso l’alba ho come l’impressione
di rivivere in un flashback i sottili momenti vissuti a casa prima della
partenza:
…è notte fonda, dopo mesi di attesa e preparativi finalmente il
grande giorno è arrivato. Non sono passate che poche ore, se mai è stata
reale la sensazione di averlo fatto, da quando abbiamo provato a chiudere
gli occhi l’ultima notte prima della partenza. Quando lasciamo la nostra
casa il buio è impenetrabile, il gelo ha appena iniziato a disegnare i suoi
arabeschi e sta riempiendo di diamanti lucenti i campi e gli alberi tutto
intorno a noi. Domani poggeremo i piedi in terra cilena, una sottile
striscia di mondo incastonata tra le Ande e l’Oceano Pacifico; una follia
della natura che nei suoi 4.300 chilometri di lunghezza si estende dai
gelidi ghiacci spazzati dal vento dell’ovest di Capo Horn, fino ai deserti
e ai salares dell’altipiano…
PRIMO GIORNO
Riapro gli occhi con i primi barlumi di luce dell’alba, attratto dal
tintinnare di qualche bar che sta schiudendo i battenti; vedo Linda,
stordita e assonnata come me, qualche panchina più in là e senza bisogno
di troppe parole siamo già d’accordo sul fatto che l’esperienza del
dormire in aeroporto sia conclusa qui. Dopo una veloce colazione a base
di ciambelle ci rechiamo nell’area partenze……mancano ancora un paio
d’ore al nostro ultimo volo ed ora il cielo sta iniziando la sua
metamorfosi mattutina. Io mi ciondolo tra un gate e l’altro a guardare gli
aerei che rullano veloci sulla pista e che sfidando la forza di gravità
puntano il loro muso verso le ultime stelle del mattino.
Ora tocca finalmente a noi, ritorniamo a fluttuare nell’aria
qualche decina di chilometri sopra l’oceano e assaporiamo inquieti
l’incontro con il North Grande e la I Regione.
Il Cile è diviso in ben 15 regioni amministrative e la I Regione, o
regione di Tarapacà, è la penultima a nord, e fino alla Guerra del
Pacifico (1883) apparteneva al Perù. L’attività prevalente è quella delle
estrazioni minerarie, anche se fino al XIX secolo la maggior importanza
era rivestita dalla produzione del nitrato di potassio che trovava largo uso
come fertilizzante agricolo. Il nitrato di potassio è il sale di potassio
dell'acido nitrico. A temperatura ambiente è un solido cristallino
incolore, dal sapore leggermente amarognolo, solubile in acqua. È
comunemente noto anche con il nome di salnitro ed è un fertilizzante di
buona qualità, contenendo due degli elementi più importanti per la
crescita e il sostentamento delle piante: il potassio e l'azoto, in forme
facilmente assimilabili. La sua importanza è andata diminuendo con
l’avvento dei fertilizzanti chimici e di pari passo queste zone del Cile
hanno subito una parziale conversione, facendo in modo che ora una
delle principali ricchezze della regione siano i giacimenti di rame.
Particolare rilevanza commerciale ultimamente si è avuta con
l’istituzione di una zona commerciale franca, chiamata ZOFRI (Zona
Franca de Iquique), nella parte settentrionale della città di Iquique.
L’aereo si abbassa di quota, nell’orizzonte bianco di foschia
iniziamo a vedere il sottile nastro d’asfalto della strada Panamericana che
sfila longilinea ad un passo dal mare. La pista dell’aeroporto, che ci
appare da lontano, è come una lunga lingua grigia rubata in quel poco
spazio che resta tra le montagne e l’oceano. La giornata ora appare
galleggiare in una quiete imperturbabile e le montagne, come giganti di
roccia ricoperti da un impalpabile manto di fine sabbia color oro,
sembrano erte a proteggere l’interno di questa terra che a prima vista
sembra essere così inospitale e dall’aspetto lunare. Mettiamo finalmente
piede sul duro suolo ed il respiro che sembrava congelato all’interno dei
polmoni ritorna a fluire libero, non tanto per paura, angoscia del volo o
altro, ma piuttosto per il groviglio di emozioni rinchiuse nello stomaco
da mesi e che ora al pensiero del lungo tragitto terrestre che stiamo
realmente per intraprendere possono finalmente liberarsi e prendere
forma.
Il taxi collettivo corre veloce in direzione nord lungo la
Panamericana, verso la città di Iquique. La mia bocca non proferisce
parola, il cervello è ora tutto indirizzato sulla vista, che cerca, nell’analisi
delle immagini che scorrono fuori dal finestrino, un appiglio per iniziare
a comprendere questo mondo nuovo. La costa appare desolata e il
paesaggio è avvolto in una foschia che lo rende ancora più drammatico,
tuttavia non è privo di insediamenti umani. Iquique ci appare in
lontananza adagiata sulla costa, e nella bruma mattutina assume quasi le
sembianze di una città fantasma. Da lontano si nota subito che le
costruzioni si estendono dai grattacieli costruiti a un passo dalla costa
fino alle basse case che ornano le pendici delle montagne. Sarà che oggi
è l’8 dicembre e sono solo le dieci del mattino, ma la città sembra
eccessivamente vuota per il numero di abitanti ufficiale.
La città di Iquique è la capitale della I Regione e dall’ultimo
censimento conta pressappoco 220.000 abitanti. Capoluogo di una
regione pressoché totalmente desertica si trova nella parte settentrionale
e gode di un clima mite durante tutto l’arco dell’anno.
Troviamo sistemazione all’hotel de la Plaza, sulla centralissima e
pittoresca via Baquedano.
Manuel Baquedano González è stato un generale e politico
cileno. Come generale Baquedano partecipò alla Guerra del Pacifico
(1879-1884) occupando la capitale peruviana Lima (1881) e venendo
ricevuto trionfalmente al ritorno in patria. Nel 1981 fu brevemente capo
del governo con le dimissioni di Balmaceda, che si dimise e gli lasciò il
potere nell’attesa dell'arrivo delle truppe conservatrici. Il 31 agosto
l'ammiraglio Montt fece il suo ingresso nella capitale e assunse la
presidenza provvisoria della Repubblica, sollevando Baquedano da ogni
incarico politico.
La strada a lui intitolata taglia nel mezzo il vecchio centro
storico ed è un lungo rettilineo lastricato di pietra e orlato da case e
marciapiedi in legno risalenti all’età coloniale. Sistemati i bagagli
usciamo subito in perlustrazione e non possiamo fare a meno di
paragonare l’immagine che abbiamo davanti con quella di una città
fantasma del vecchio west, con tanto di binari abbandonati che
attraversano longitudinalmente la via. L’aria è fresca, ma il Sole dritto
allo Zenith spinge i suoi raggi sulle nostre teste contribuendo ad
un’atmosfera da mezzogiorno di fuoco. Ci dirigiamo verso la piazza e
poi in direzione del porto, area desolata dove il mosaico colorato dei
container si staglia contro il blu intenso dell’Oceano. Seguiamo il
lungomare, l’aria è densa di salsedine e la calma apparente del mare è
disattesa dalla forza con cui le onde si infrangono su di una costa che
alterna rocce e sabbia. Ritornando verso il centro per consumare il nostro
primo frugale pranzo cileno notiamo molti college in perfetto stile
inglese, che ora appaiono come grandi edifici fantasma probabilmente
svuotati dalle vacanze estive.
Il fuso orario e il lungo viaggio iniziano a farsi sentire, dopo
pranzo crolliamo in un sonno profondo nel quale mi sembra di
ripercorrere a ritroso i preparativi prima della partenza ed il vero motivo
che ci ha portato in questa città:
……è una calda giornata di inizio ottobre, dopo una irrequieta
mattinata al lavoro mi aspetta l’appuntamento cruciale con il viaggio che
sto organizzando da mesi, quello che potremmo definire il punto del
NON ritorno. È già tutto pronto, imballato, deciso, non resta che infilare
quella cassa metallica ingombrante sul furgone di Valerio, che mi sta già
aspettando, e prendere l’autostrada verso Bologna.
L’operazione risulta un po’ macchinosa perché la dimensione
della cassa è di poco inferiore a quella del vano su cui dobbiamo
caricarla, ma con un po’ di pazienza però tutto si svolge nel migliore dei
modi. Il viaggio verso Bologna è pieno di riferimenti a quello che sarà
poi, a destinazione, anche se credo di non rendermi ancora realmente
conto dell’importanza di questo momento per la realizzazione di ciò che
ho perseguito da mesi. Ecco ci siamo. Valerio ferma il furgone davanti
ad un capannone anonimo, come ce ne sono tanti. Scendo, suono il
campanello e mi faccio avanti attraverso la vecchia porta cigolante.
Spiego alla segretaria che devo consegnare una spedizione per il Cile e
mi viene indicato l’ingresso sul retro. Il carrello elevatore scarica la
cassa. Ora ci siamo sul serio. Trattengo il respiro. Leggo per un’ultima
volta quella scritta a pennarello fatta sulla plastica lucida che avvolge il
freddo metallo: DESTINO FINAL IQUIQUE, CHILE.
Non mi rendo conto, rispondo alle battute dell’uomo che ha scaricato la
cassa mentre chiude il portone alle nostre spalle. È fatta mi dico, e la
gioia mi esplode dentro. Qualche settimana fa sembrava dover andare
tutto a monte, ora invece eccomi qui di ritorno da Bologna dopo aver
consegnato la mia moto chiusa dentro ad una cassa, pronta per essere
spedita dall’altra parte del mondo. Non mi resta che contare i giorni che
ci dividono dalla nostra partenza……sessantasei.
Riapro gli occhi, stordito da un inatteso caldo, dal sonno, dal
sogno. Quei sessantasei giorni si sono dissolti, la partenza è già passata e
la distanza che c’è ora tra noi e la moto è ormai sottile come il velo di
luce della sera che filtra dalla finestra.
Con il calare della sera sembra che via Baquedano prenda vita.
Usciamo per cena quando sono da poco passate le venti e il crepuscolo
illumina l’aria che ora si è fatta limpida. Per festeggiare l’inizio
dell’avventura ceniamo con riso ai frutti di mare, spiedini di gamberi e
fritto misto, il tutto innaffiato da un buon sauvignon cileno, e dalla
quantità e qualità del cibo sembra proprio che per i prossimi giorni non
avremo problemi nel soddisfare i piaceri del palato.
SECONDO GIORNO
La notte passa rapida e senza sogni, ma l’alba non ci coglie però
impreparati visto che è dalle 6,30 che a causa del fuso orario non
chiudiamo più occhio. Alle 8,00 siamo già davanti al portone d’ingresso
del porto con in mano i documenti della spedizione e tante speranze. Nel
frattempo la città sembra destarsi lentamente dal sonno, e l’aria fresca e
immota inizia a riscaldarsi. Per il mio sogno ad occhi aperti il risveglio è
invece decisamente più brusco: la corpulenta impiegata dell’ufficio
portuale ci comunica, tra un morso ad un panino e l’altro, che non riesce
a trovare il riferimento della nostra merce e che dobbiamo recarci presso
l’ufficio del corrispondente locale del nostro spedizioniere……una certa
ECULINE. Non perdiamo tempo e saltiamo sul primo taxi di passaggio.
Il veicolo che ci carica non è però libero e prima di portarci a
destinazione ci addentriamo nella zona commerciale franca dove
scarichiamo gli altri passeggeri. L’impressione che abbiamo in questo
passaggio fugace è di essere dentro ad un immenso, sporco, disordinato e
poco raccomandabile quartiere. Qui vengono smerciate grandi quantità
di merce in arrivo via mare, merci che grazie al regime fiscale agevolato
fanno di Iquique un ottimo luogo nel quale fare affari.
Arrivati finalmente all’ufficio scopriamo che si trova all’interno
di uno dei fatiscenti palazzi adiacenti la piazza principale, praticamente a
cinquecento metri in linea d’aria dal nostro hotel. Si presenta davanti a
noi ad aprire l’ufficio un ragazzo che avrà al massimo diciotto anni,
vestito in modo casual e con un ritardo di almeno venti minuti. Oltre a
non saperne molto della nostra spedizione sembra anche in difficoltà nel
cercare una soluzione alternativa all’attesa di suo fratello, che sarebbe il
titolare e dovrebbe arrivare a minuti. Inizio seriamente a pensare che le
complicazioni saranno molte di più di quelle previste. Solo alle 10,20,
finalmente, riusciamo a esporre il nostro problema a qualcuno che
sembra sapere come muoversi. Una telefonata, due, tre, sembra però che
anche a Santiago ne sappiano poco. Dobbiamo attendere risposte che
necessitano tempo, sembra che questo però non sia il luogo più adatto
così ci viene chiesto di ritornare dopo un’ora. I programmi di partire nel
pomeriggio di oggi verso l’altipiano sembrano destinati ad essere
rimandati, ma se per lo meno riusciremo a mettere le mani sulla moto
potremmo organizzarci per partire domani all’alba; eventualità già
largamente considerata nelle larghe maglie del piano di viaggio messo
giù a tavolino……c’è ancora speranza.
Nel frattempo approfittiamo dell’ora d’aria per fare colazione,
visto che presi dalla smania di essere al porto di prima mattina ce ne
eravamo privati. La piazza centrale non sembra aver niente a che fare
con quella vista ieri; oggi è un continuo via vai di persone, di locali
aperti e non sembra nemmeno di essere nello stesso luogo. Dopo una
bella frittata, pane, marmellata e succhi di frutta ci sentiamo pronti per
sapere che destino ci attende. Risaliamo all’interno dello stretto e
scricchiolante ascensore, bussiamo e il sorriso di chi ci apre ci dà
speranze, speranze che però durano un solo istante! La notizia è peggio
di qualunque cosa mi sarei aspettato di sentire: la moto è rimasta al porto
di San Antonio!!! Per un attimo mi sembra di piombare nel peggiore
degli incubi. Mesi di preparativi, di attesa, e ora per l’errore di qualcuno
sembra che tutto stia per andare in frantumi. Riceviamo il numero del
corrispondente di Santiago e andiamo al primo centro chiamate ad
esporre tutte le nostre rimostranze.
Prendo la fredda cornetta del telefono in mano e compongo il
numero, sono talmente interdetto dallo shock che quando la voce
dall’altra parte risponde non riesco a proferire nemmeno una parola
comprensibile in spagnolo ed emetto solo suoni incomprensibili,
farfuglio qualcosa per un po’, poi riaggancio frastornato e deluso.
Riprova Linda, fortunatamente lei riesce a controllarsi e a farsi capire: la
moto è rimasta nel porto di San Antonio per un errore dell’ultimo
trasportatore e ci comunicano che se vogliamo che sia portata a Iquique
come nostro diritto sono necessari circa 7-8 giorni. È un tempo che non
possiamo assolutamente permetterci di aspettare e inoltre pensare che
solo poche ore fa eravamo a Santiago rende la cosa ancora più
controversa. Ad averlo saputo ci saremmo risparmiati un volo, una
giornata in giro per uffici tristi e spogli, ma sopratutto avremmo avuto
1.900 chilometri di strada in meno tra noi e la moto. Ci consultiamo
velocemente e inizio a pensare che valga la pena lasciare tutto com’è,
che valga la pena rinunciare. Possiamo fare il nostro viaggio anche senza
moto, quando saremo a Santiago alla fine del tour de force che ci aspetta
organizzerò una spedizione di ritorno per rimandarla a casa e fine dei
giochi. Il briefing è breve, Linda è dalla mia……si va a San Antonio!
Controlliamo i voli sul portale web delle aerolinee cilene, i prezzi sono
eccessivi e siamo stanchi di prendere aerei. La decisione possibile è una
soltanto: ci assicuriamo che mentre noi andiamo là la moto non venga
spedita qui, e sperando di riuscire a sbrigare la pratica tra due giorni,
saltiamo sul primo autobus diretto nella capitale……se tutto va bene
dovrebbero essere 24 ore di viaggio non stop.
Quando dopo oltre un’ora di attesa alla stazione l’autobus della
TUR-BUS finalmente si muove, la tensione accumulata durante tutta la
giornata si scioglie per incanto. Non abbiamo più idea di cosa attenderci,
i programmi di viaggio sono stati completamente sconvolti, siamo però
finalmente in movimento e abbiamo per lo meno scongiurato il rischio
che Iquique si trasformasse in una trappola dalla quale avremmo faticato
a fuggire. Ci lasciamo i grattacieli alle spalle ripercorrendo quel breve
tratto di strada che già conoscevamo in direzione dell’aeroporto e da lì
iniziamo la rincorsa verso l’ignoto cuore del Cile. Sono appena le cinque
del pomeriggio, il sole è alto nel cielo e la strada corre senza sosta tra
l’orizzonte solitario del mare e l’imponente presenza desertica della precordigliera,
che da qui sembra un‘immensa duna di sabbia pronta a
sgretolarsi in un istante. Mi immergo nella lettura del romanzo,
eccezionale almeno quanto delirante, che ho portato con me: Cent’anni
di solitudine del Nobel colombiano Gabriel Garcia Marquez. Sono
talmente preso dal racconto che quando sul fare della sera l’autobus si
ferma e fuori dal finestrino scorgo le divise dei militari, ho quasi il
timore di veder sbucare il Colonnello Aureliano Buendìa con le sue
truppe; mi riprendo subito e mi accorgo che è solo il controllo doganale
all’uscita dal territorio Iquiqueño. Ci fanno scendere; il sole è calato sulla
linea perfetta dell’orizzonte marino, la luce che illumina il paesaggio è
ora tenue e soffusa, ed il vento denso di salsedine spazza le sabbie
desertiche di queste terre. Ad uno ad uno prendiamo i nostri bagagli e
siamo obbligati ad un sommario controllo di ciò che trasportiamo. Al
termine dell’inutile messa in scena ripartiamo in direzione sud lungo
l’infinito serpentone. L’autobus è assortito delle presenze più varie:
donne, bambini, anziani, turisti per lo più brasiliani e noi; diciamo però
che non presto attenzione ai particolari delle presenze che ci circondano,
ora la mia concentrazione è tutta rivolta al momento in cui arriveremo a
destinazione.
Il paesaggio è dannatamente uguale almeno quanto
dannatamente bello e le dune si colorano di tinte sempre più scure a
mano a mano che il sole si inabissa nel Pacifico. Mentre la notte ci
inghiotte intravediamo gli immensi mostri metallici del porto di
Antofagasta, le gru che infaticabili caricano e scaricano quel mosaico di
container carico del sudore di operai lontani e vicini. Quando le luci
della città e del porto sono ormai alle nostre spalle e i fari dell’autobus
illuminano le notte buia, mi perdo in sogno ammirando quel poco del
cielo australe che filtra dalla trasparenza del finestrino:
……è’ la fine di settembre, e il progetto di spedire la moto in
Sudamerica per affrontare un insolito viaggio che sembrava dover
saltare, ha preso quota da un momento all’altro. In pochi giorni ho
dovuto rimediare a tutte le cose preventivate e non fatte: ho montato le
gomme nuove da percorsi misti, ho cambiato tutta la viteria della carena
per essere sicuro di non avere imprevisti qualora dovessi smontarla,
abbiamo sperimentato il vestiario e le borse da applicare alla moto, il
meccanico ha fatto un controllo completo di tutto il controllabile ed ora
eccoci qui, alla fase delicata dell’imballaggio. Oggi ho appuntamento in
officina da Stefano dove proveremo ad infilare la mia Yamaha XTZ 750
all’interno di un imballo metallico recuperato mesi orsono da un
rivenditore di moto. Inizio con lo smontare le parti che escono
dall’ingombro: cupolino, specchi, manopole, poi il serbatoio viene
svuotato e la batteria scollegata. Ed ecco che arriva l’operazione
tecnicamente più complicata: solleviamo l’anteriore con il muletto e
sfiliamo il perno della ruota davanti. Ora la ruota è libera, non senza
fatica infiliamo la moto nelle guide e proviamo a far combaciare la
forcella con il blocco di metallo della base. Le dimensioni sono giuste,
ma per un fissaggio che sopporti il viaggio ci sarà bisogno di una
modifica. Passiamo al retro: la ruota si incastra discretamente nella
guida, ma per renderla stabile ci sarà però comunque bisogno di legarla.
Passiamo le corde sulla moto e con forza le leghiamo in modo che
l’ammortizzatore posteriore si schiacci quasi a fondo corsa. Sembra che
siamo riusciti ad ottenere un impianto sufficientemente stabile, non resta
che montare l’involucro esterno e perfezionare il tutto. Siamo alla fine,
inserisco le borse con il vestiario e le protezioni, il bauletto posteriore
con i caschi e l’attrezzatura che servirà in caso di forature e imprevisti,
ed infine per ultima la ruota anteriore. Non mi resta che avvolgere tutto
con il nastro trasparente da imballaggio. C’è voluto un pomeriggio intero
ma sto incidendo con il pennarello indelebile sulla superficie lucida e
sfuggevole dell’imballaggio quelle parole che suonano quasi come una
vittoria: DESTINO FINAL IQUIQUE-CHILE.
TERZO GIORNO
Mi risveglio all’alba e se non fosse perché il mare è scomparso
dalla vista, guardando fuori dal finestrino sembrerebbe di non aver
affatto dormito. Siamo ancora prede del desolato deserto di Atacama,
qualche sparuto arbusto ha iniziato a far capolino tra i sassi, ma restiamo
inesorabilmente schiacciati tra il cielo e la terra per molte ore ancora. Mi
immergo di nuovo nella lettura, so che avrò modo di ammirare
approfonditamente questi paesaggi quando dovremo rifare la strada
inversa con la moto……o almeno spero. Scorrendo le righe ho quasi
l’impressione che per uno strano sortilegio siamo finiti all’interno del
romanzo che sto leggendo: i protagonisti del testo confinati
nell’incredibile paese di Macondo e noi confinati nell’interminabile
deserto cileno…..forse il modo più veloce per uscirne non è altro che
leggere il libro tutto d’un fiato.
Ad un tratto verso mezzogiorno, dopo aver ridisceso ampie
curve, il mondo fatto di persone e case riappare come per incanto a La
Serena. In un attimo si materializza una città vera e propria adagiata sul
mare, con spiagge, centri commerciali e attraversata da un ampia strada a
due carreggiate con altrettante corsie per senso di marcia. Attraversato
questo angolo di civiltà la strada rimane larga, con caselli di pedaggio e
ampi autogrill. Avvicinandoci alla capitale poi, di pari passo con il
diminuire dei chilometri, aumenta anche la vegetazione che ora è bassa e
fitta, e a poco a poco sui lunghi rettilinei che ora salgono e ora scendono
compaiono campi coltivati e industrie. Quando facciamo ingresso al
terminal TUR-BUS di Santiago sono trascorse 26 ore dalla partenza,
abbiamo percorso circa la distanza che separa Roma da Copenaghen e
nonostante questo non abbiamo attraversato nemmeno la metà dell’intera
lunghezza di tutto il territorio cileno!
Non facciamo nemmeno in tempo ad annusare l’aria di Santiago
che in meno di quindici minuti dall’arrivo siamo già saliti sull’autobus
per San Antonio; in un’ora e venti dovremmo essere a destinazione e
sembra che la fortuna finalmente ci assista. Questa folle corsa sta però
mettendo a dura prova anche due viaggiatori incalliti come noi, che in 24
ore di viaggio via terra erano riusciti, in un precedente viaggio, ad andare
dalla capitale del Laos Vientiane, ai templi di Angkor Wat in Cambogia,
il tutto passando per Bangkok.
Lasciamo subito Santiago e la sua periferia ordinata fatta di
quartieri disegnati con il righello, quasi fossero installazioni militari. La
valle che si apre davanti a noi non ha un paesaggio molto diverso da
quello che troveremmo in Europa: campi coltivati, aziende agricole,
alberi da frutto e vigneti. Il clima in effetti è molto simile, direi quasi
identico, non fosse che grazie alla vicinanza del mare difficilmente in
inverno il termometro scende sotto lo zero. Eccoci, dopo quasi 28 ore da
quando abbiamo lasciato Iquique, posiamo piede sul suolo di una sporca
e sgangherata cittadina di mare, o meglio dire sul mare. Non sappiamo
da dove cominciare e per questo decidiamo sia meglio prendere un taxi e
farci portare in cerca di un hotel. Inizialmente, da quello che vediamo,
diffidiamo molto anche del fatto che ce ne siano, poi ne troviamo uno
sgangherato che si affaccia sul lungomare. Da qui la cittadina sembra un
immenso cantiere a cielo aperto; davanti a noi, oltre la strada, si lavora
senza sosta alla costruzione di grandi mostri di ferro e cemento, anche se
non capiamo bene se si tratti di un nuovo scalo portuale o di un’area
commerciale destinata a valorizzare San Antonio.
Negli ultimi anni la merce in transito nel porto di San Antonio ha
subito un aumento vertiginoso, tanto che nell’ultimo decennio lo scalo è
passato da secondo porto del Cile a primo scalo di tutta la costa ovest del
continente sudamericano. Questo è potuto avvenire grazie alla posizione
centrale e agli ottimi collegamenti con la capitale, ma grazie anche e
soprattutto agli investimenti privati e statali che sono piovuti sulla zona
per favorirne lo sviluppo. Gli ultimi investimenti da parte del governo
mirano infatti al recupero e alla valorizzazione di tutte le attività costiere
tipiche delle città di mare.
La stanza che ci viene assegnata è minuscola, grazie alle pareti
scure e alla finestra che si affaccia su di un vicolo cieco sembra ancora
più piccola, ed inoltre gli odori di muffa e umidità dell’interno sono
decisamente pungenti. In totale contrapposizione all’ambiente salubre e
malsano c’è però la solarità della proprietaria che sembra volersi dare da
fare per compensare alle mancanze dell’alloggio che ci sta offrendo. Non
le capiterà certo tutti i giorni di poter ospitare persone diverse da rozzi e
sporchi operai di cantiere, ma nel suo modo di fare sembra esserci
qualcosa di più del solo interesse commerciale, c’è forse un’abitudine ad
essere gentili e cordiali a cui non siamo più abituati nella nostra società
del consumo e del tutto e subito.
Per la cena non abbiamo voglia e nemmeno bisogno di
allontanarci troppo, proprio nella porta accanto alla nostra c’è l’ingresso
di un ristorante che dà l’impressione di essere fin troppo lussuoso per un
luogo triste e desolato come questo, all’apparenza abbandonato soltanto
agli affari del porto. Entriamo un po’ titubanti dalla porta a vetri e
notiamo subito la cura dell’arredamento, dei quadri alle pareti e dei
tavoli apparecchiati con ricercatezza. Bottiglie di vini pregiati ornano gli
scaffali e dalle vetrate abbiamo un’ampia vista sul molo e sulla costa
sottostante. Ordiniamo i famosi mitili cileni e una bottiglia di vino,
sperando che questa volta l’oziosa cena sia il preambolo di un giorno
fortunato. La cucina si rivela non essere granché e quando usciamo dal
locale siamo un po’ delusi sia dai grossi molluschi che dal servizio, di
certo non all’altezza di come si presentava. Fuori il cielo è già scuro e
nel buio della notte brillano solo le scintille prodotte dalle smerigliatrici
e dalle saldatrici degli operai che lavorano senza sosta nel cantiere. Ci
rinchiudiamo nel nostro loculo sotto le lenzuola intrise di umidità, nella
speranza che domani sia il giorno giusto per prendere in mano il nostro
destino e puntare di nuovo verso nord. Nelle braccia di Morfeo
ripercorro quel viaggio a ritroso iniziato qualche giorno orsono:
sono mesi che chiedo stime telefonicamente e via internet per la
spedizione, ho già ordinato negli USA dettagliatissime cartine
geografiche di rilevazione militare (le uniche a disposizione con una
risoluzione accurata dell’area) con tutto il nord del Cile e gli altipiani
della Bolivia, che probabilmente non serviranno mai a nulla, ma vale la
pena prevedere il peggio quando si organizza un’avventura come questa.
Ho ordinato le attrezzature d’emergenza e mi sono esercitato nel caso ci
fosse bisogno di dover sostituire le camere d’aria della moto, i vestiti, le
protezioni: è tutto pronto. Manca solo quella maledettissima spedizione.
Sembra che nessuno voglia lavorare con un privato che cerca spazio in
un container, e anzi sembra che nessuno lo voglia fare a maggior ragione
per spedire una moto. A nulla valgono le mie rassicurazioni sul fatto che
la moto vale poco; chi ha avuto problemi in un senso, chi nell’altro e
nessuno è disposto a fare groupage per una merce del genere. Le
destinazioni poi sono piuttosto rigide, sembra che tutti siano attrezzati
solo per i porti principali: San Antonio in Cile, Buenos Aires in
Argentina, Montevideo in Uruguay. Sembra che non ci siano altre
soluzioni a costi accessibili e inoltre tutte devono fare scalo a Miami con
complicazioni ancora maggiori. Sembra che nemmeno l’aiuto di
Giampiero, un collega del centro Italia che in moto ha girato il Mondo,
sia in grado di sbloccare la situazione; ormai credo che rinuncerò a
realizzare questo strano sogno di attraversare gli altipiani del Sudamerica
in moto e raggiungere la città Inca di Machu Picchu. I tempi iniziano ad
essere risicati e non sono più tanto sicuro che il progetto sia realizzabile,
quando accade che da un giorno all’altro mi ritrovo al telefono con
qualcuno che non fa problemi, qualcuno che rende tutto semplice e che
in pochi minuti mi invia una quotazione dettagliata per il porto di
Iquique in Cile. Non è più alta di altre quotate su porti di maggior
importanza, ed è tutto talmente perfetto che quasi non ci credo. Iquique è
il porto ideale, a pochi chilometri dagli altipiani, perfetto per chiudere
quell’anello che nella migliore delle ipotesi mi permetterebbe di
rispedire la moto a casa al termine del viaggio, e inoltre partire da qui
permetterebbe un viaggio più soft, più breve, senza mettere alla frusta il
mezzo, il pilota, ma soprattutto il passeggero. Siamo quasi a fine
settembre e i tempi utili per la spedizione sono pochi, tra dieci giorni al
massimo devo consegnare la moto……il sogno è ancora vivo, è on the
road.
QUARTO GIORNO
Apro gli occhi destato dalla luce grigiastra del mattino e sento al
naso l’odore pungente e umido della muffa. Mi rendo conto ben presto
che sono lontano dal sogno che ho appena fatto; sono a San Antonio.
Tendo l’orecchio per sentire i rumori del mondo, quasi a voler carpire un
segnale ben augurante per quello che ci aspetta oggi, ma dalla strada
sembrano provenire soltanto rumori ovattati, come se il mondo stesse
ancora dormendo. Come da programma alle otto in punto siamo già al
porto, il cielo è grigio e le vie sono deserte e cariche di tristezza. Ci
rendiamo conto definitivamente che la vita in questa parte del mondo
viaggia a ritmi diversi e anche nelle attività più mattiniere fino alle nove
non si vede praticamente nessuno. Ripieghiamo nel bar del porto dove
facciamo colazione con anonimi toast al prosciutto e tè caldo, poi,
seguendo i binari abbandonati color ruggine che fiancheggiano la strada,
ritorniamo verso il grande cancello di ferro dietro al quale sono impilati
uno sopra all’altro i container in arrivo da ogni parte del globo. All’inizio
sembra tutto fin troppo facile; gli impiegati del porto ci indirizzano alla
dogana che dista solo poche centinaia di metri, ma qui però ci pongono il
problema del Bill of Lading che indica come luogo di ritiro Iquique e ci
rimandano al porto. L’inghippo sembra risolvibile dopo lauto pagamento
e inizio a pensare seriamente che tutto questo sia uno scherzo e che da
qualche parte ci sia una telecamera per filmarci! Negli angusti uffici del
porto c’è un gran via vai di persone e fortunatamente qualcuno si prodiga
per aiutarci a risolvere il problema perché nonostante siamo arrivati fin
qui la voglia di mollare tutto è ancora forte. Al termine delle trattative
dobbiamo pagare 120 dollari per la modifica del documento…fatta a
penna e timbrata… e una volta ottenuta ritorniamo all’ufficio dogana
dove l’impiegata ammira con soddisfazione e con un largo sorriso il
documento corretto. In meno di mezz’ora, al cospetto di un uomo sulla
quarantina dai modi estremamente gentili, ci viene rilasciato il permesso
di importazione temporanea del veicolo, documento con il quale
possiamo andare a ritirare finalmente la nostra merce al deposito.
Quando mettiamo piede fuori dalla porta della dogana il grigiore del
cielo sembra dipinto tanto è uniforme e privo di sfumature, a me però
sembra che finalmente su di noi splenda il sole, anche se la sensazione
dura estremamente poco perché non tarda ad arrivare l’ennesima doccia
gelata……ora ci chiedono i soldi per i sedici giorni di deposito!
A questo punto mi si gira definitivamente l’interruttore del
cervello e imprecando come un invasato minaccio il povero impiegato,
che personalmente non ha nessuna colpa, e gli dico che lascio la merce lì
e che vedano loro cosa farne. Linda come già in passato mi fa riprendere
parzialmente la ragione e per la seconda volta in pochi giorni ci rechiamo
a metterci in contatto con l’ufficio ECULINE di Santiago. Questa volta
riesco a farmi capire benissimo, sembra che comprendano che non posso
tollerare per principio di aver già perso tre giorni e pagato 120 dollari per
un errore non mio ed ora di dover pagare altri soldi per il deposito di una
cosa che non doveva essere in deposito! Preso dalla rabbia chiamo anche
lo spedizioniere in Italia con il quale non posso fare altro che sfogarmi
perché, mi spiega, non ha nessun potere se non quello di chiamare in
Cile e intimare al corrispondente locale di spedire al più presto la merce
a Iquique……ci mancherebbe altro! Attendiamo oltre un’ora e
finalmente quando è quasi mezzogiorno arriva l’accordo tra il deposito
ed ECULINE che si sobbarcherà le spese e a noi resteranno da pagare
solo quelle relative alla movimentazione che corrispondono a poche
decine di euro. Non sappiamo più se sperare di avercela fatta o se
aspettarci nuovi problemi, ma il sole che nel frattempo ha però
definitivamente bucato la spessa coltre grigia, in qualche modo ci
incoraggia ad essere fiduciosi. Recuperiamo i bagagli in hotel e ci
dirigiamo finalmente verso SEAPORT 1, il deposito merce appena fuori
dal paese dove ci attendono le operazioni di montaggio.
All’arrivo ci ritroviamo di fronte ad un grande piazzale animato
da carrelli elevatori intenti a fare e disfare container. Mi vengono
consegnati un giubbotto ad alta visibilità ed un casco da cantiere,
indossati i quali posso finalmente entrare nell’area di lavoro; Linda
invece mi attenderà fuori oltre la rete metallica. Il sole cocente è mitigato
solo dalla brezza oceanica che soffia infaticabile dal mare verso
l’interno. Faccio il mio ingresso titubante, assalito d’improvviso dal
timore di trovare l’ennesimo imprevisto a sbarrarmi la strada verso la
realizzazione del mio sogno. Il mio sguardo scruta speranzoso tra le file
di casse, quando d’improvviso si illumina. Davanti a me sull’asfalto
ruvido giace l’involucro metallico e sulla plastica lucida che lo ricopre
ammiro quella scritta che è rimasta impressa nella mia mente al
momento del saluto: DESTINO FINAL IQUIQUE - CHILE. Inizio subito
le operazioni di montaggio che sono più rapide di quello che mi sarei
aspettato, sarà perché in questi mesi di attesa le ho rimandate a memoria
più e più volte immaginando il momento in cui sarei arrivato a
destinazione, ma mi riesce tutto in modo rapido e automatico. Dopo aver
rimosso l’involucro e tolto i bulloni della cassa, libero l’anteriore e lo
solleviamo con il carrello elevatore. Infilare la ruota si rivela un po’ più
macchinoso del previsto perché devo smontare anche le pinze dei freni,
eventualità comunque già sperimentata a casa, ma tutto va però per il
meglio.
La mia fronte è perlata di sudore e sento il vento fresco che mi
cristallizza le gocce sulla pelle, i guanti di lattice che avevo portato per
non sporcarmi hanno ceduto da un pezzo e le mani sono nere di morchia.
Vedo la meta vicina, improvvisamente sono preso da una frenesia densa
di soddisfazione e di significato. Rimonto gli specchietti, la carena, il
cupolino e le borse, poi verso nel serbatoio la benzina presa al
distributore e per un attimo, al termine di un’ora di lavoro ininterrotto,
mi fermo a contemplare quello che ho davanti, come se solo ora mi
rendessi conto che ce l’abbiamo fatta veramente; è un momento unico, di
quelli che rimarranno per sempre indelebili nella mia memoria.
Infilo le chiavi nel cruscotto e trattengo il fiato esitante, sto per
sentire di nuovo il motore della mia SuperTenerè cantare…….giro la
chiave, il cruscotto rimane buio, riprovo, niente!! La batteria è a zero,
probabilmente ha sofferto le settimane in mare e sembra essere
definitivamente andata. Nulla ormai però mi può fermare, gli operai del
deposito sono tutti concentrati su di me, un italiano pazzo che si è fatto
spedire una moto dall’Europa e ora vorrebbe correre libero verso nord
attraverso il deserto e lungo la cordigliera. Non ho nemmeno bisogno di
chiedere e mi ritrovo due di loro che mi spingono attraverso l’immenso
piazzale. Proviamo una prima volta, niente. Riproviamo di
nuovo……..ecco un borbottio, un rantolo che sale, si soffoca, si riprende,
urla, è viva!! Sono sulla mia moto senza casco, accelero nel piazzale di
un deposito di container in Cile e giro intorno come il cavaliere di un
rodeo, sono felice, quasi in estasi e in questo momento non potrei
desiderare nulla di più dalla vita che vivere questo istante. La strada linea
d’asfalto che si srotola a nord è lunga, abbiamo diversi giorni di ritardo
ma ora possiamo cavalcare la strada, ora quello che accadrà è solo affar
nostro……Born to be Wild cantava Steppenwolf nella colonna sonora
del celebre film Easy Rider, ora anche noi possiamo farlo correndo
incontro a quel selvaggio deserto che abbiamo dovuto affrontare in
autobus non più di 24 ore fa per giungere fino a qui.
Sono da poco passate le 15,30 quando ci immettiamo sulla
strada, carichi di bagagli e senza una meta precisa. Per un attimo nella
confusione dello svincolo stradale sbaglio carreggiata dirigendomi a sud
anzichè a nord, mi chiedo se non sia un segno, se non sia un inconscio
richiamo verso la Carrettera Austral e verso quel mondo unico e
incredibile che si schiude in Patagonia, nella Terra del Fuoco e nei canali
dello stretto di Magellano…….là dove il Mondo è alla fine del Mondo.