martedì 9 febbraio 2010
SAN PEDRO DE ATACAMA
SETTIMO GIORNO
La notte passa irrequieta e senza sogni, San Pedro si trova ben
oltre i 2.000 m s.l.m. e ho l’impressione che il mio fisico fatichi a
mettersi in sintonia con questa quota. Mi rigiro nel letto più volte fino a
che l’alba non rischiara la stanza e la luce che entra dalla finestrella
arriva a battere dritta sulla mia testa. Dopo tanto viaggiare decidiamo che
oggi sarà una giornata di riposo. La mattina la passiamo camminando per
il paese a raccogliere nelle varie agenzie informazioni sulla Bolivia e sul
tour al parco geyser di El Tatio e prima di pranzo scriviamo qualche mail
agli amici a casa.
Nel pomeriggio non resistiamo al richiamo della moto e
facciamo rotta verso il cuore del Salar de Atacama: la strada che porta
verso Toconao non è bellissima e devo stare attento alle tante buche.
Prima del pueblo attraversiamo una strana e imprevista “foresta”, segno
inequivocabile di acque sotterranee, e superato quest’unico paese
svoltando in direzione della Laguna Caxia la carreggiata si trasforma in
una vera e propria pista.
Tra la cordigliera Domeyko e quella delle Ande si trova questo
altopiano dal quale si dipartono la cordigliera de la Sal e un ramo di
quella di Domeyko. Nell'altopiano si trovano il Salar de Atacama e le
sorgenti del Rio Loa, il principale fiume del Cile (lungo 440 km) che è
anche l'unico corso d'acqua che attraversa le pianure dell'Atacama. Nella
parte più occidentale della regione si trova invece la Cordigliera delle
Ande con numerosi vulcani, i principali tra i quali sono il vulcano
Ollagüe (5.865), il Linzor (5.555) e il Licancabur (5.916). Tra le
manifestazioni dell'attività geotermica del territorio vi sono i geyser di El
Tatio, mentre l'estremo orientale della regione è caratterizzato dalla Puna
di Atacama, un altopiano situato al confine con Bolivia e Argentina.
L’impressione che abbiamo avvicinandoci al salar è che sia un
luogo estremamente secco ed inospitale, dove solo una vegetazione bassa
e giallastra sfida questo clima estremo ricoprendo il paesaggio come una
peluria. La laguna è annunciata da una piccola casupola nella quale si
paga il biglietto d’ingresso e mentre parcheggiamo la moto ci rendiamo
conto che il Sole brucia ancora la pelle nonostante sia già tardo
pomeriggio. Quando ci addentriamo lungo i camminamenti di roccia
compare davanti a noi un piccolo specchio d’acqua che riflette il blu
intenso del cielo e dove numerose colonie di fenicotteri rosa sondano le
acque melmose con il becco in cerca di cibo. Le rocce tutte intorno sono
decorate da minuscoli cristalli di sale che ad un esame attento disegnano
arabeschi bianco lucente sulla loro superficie ruvida e immobile.
Facciamo ritorno verso San Pedro con lo sfondo decorato dalla
silhouette del Licancabur e da qualche vigogna che al nostro passaggio
corre nel paesaggio piatto. Questa sera il vento sibila più forte e più
fastidioso del solito e ad un esame visivo inoltre mi accorgo che la moto
sta perdendo qualche pezzo: il blocco dell’accensione si muove a causa
di un perno rotto e il fumo nero che esce dallo scarico indica una cattiva
combustione causata dall’altura. Domani dopo la visita ai geyser sarà
meglio fare un controllo generale e dare una bella oliata alla catena in
vista delle terribili piste boliviane che corrono per chilometri a oltre
4.000 m s.l.m.
Al nostro arrivo in campeggio troviamo una colorita squadriglia
di motociclisti cileni, che appena arrivati ci vengono incontro per
salutarci e farci subito un sacco di domande. Anche loro come noi sono
partiti qualche giorno fa da Santiago e sono diretti a nord, ma non
passeranno però nell’estremo sud boliviano perché il loro viaggio ha una
destinazione più “impegnativa”: il giro del Mondo, evento per il quale
stanno girando un documentario e per questo sono ben scortati da mezzi
di appoggio e telecamere.
OTTAVO GIORNO
La nostra nottata è brevissima in termini di tempo, ma io ho
l’impressione che sia interminabile ed i risvegli si susseguono sfiancanti
l’uno all’altro. Anche se tra poco ci spetterà l’incontro con uno
spettacolo della natura unico so che non è questo a rendermi inquieto, è il
mio corpo che ancora soffre per l’altitudine, poi alle tre e trenta del
mattino la sveglia mette finalmente fine alla tortura. In pochi minuti
siamo pronti, e vestiti di tutto punto usciamo in una notte fredda
illuminata da poche stelle; siamo diretti al sito geotermico di El Tatio.
Abbiamo deciso di non andare in moto e di affidarci ad un tour
organizzato perché ci hanno detto che la strada è molto brutta ed oltre a
questo c’è da aggiungere l’incognita dell’altura e che a quest’ora del
mattino fa freddissimo.
Procediamo nella notte scura come la pece lungo una strada di
sassi che sale, parallela alla linea immaginaria del confine di stato, lungo
le montagne. A tratti la carreggiata è bruttissima e veniamo sballottati
all’interno dell’abitacolo del minivan come pupazzi di pezza, oltre a
questo abbiamo anche la “fortuna” di avere altri veicoli che ci precedono
e per questo respiriamo per tutto il viaggio la polvere che alzano.
Arriviamo finalmente a destinazione mentre l’alba rischiara debolmente i
cieli, siamo a 4.308 m s.l.m. e il termometro segna -7C°! L’impressione
è quella di essere dentro ad una cella frigorifera ma con la testa leggera e
sospesa nel vuoto; per ora non sembra che l’altitudine abbia dato altri
particolari disagi, ma restiamo vigili.
La fortuna da l’idea per lo meno di averci assistito per quanto
riguarda la comitiva alla quale ci siamo aggregati: l’autista, che ci fa
anche da guida, è mezzo pazzo e il resto del gruppo, oltre che da noi due
italiani, è composto da un cileno svitato, due ragazze spagnole, un
americano e un tedesco……anche se messa così potrebbe sembrare
l’inizio di una barzelletta! Dopo le raccomandazioni di rito ci
addentriamo nel cuore del campo geotermico.
Dalle bocche dei geyser si alzano verso il cielo terso, che si fa
ogni istante più luccicante nella luce del mattino, lunghe fumarole di
vapore e da quelli più attivi a intervalli regolari si innalzano lunghe
colonne di acqua bollente; la Luna fa ancora capolino sull’orizzonte
mentre la luce aumenta irradiando sempre più questo spettacolo della
natura.È incredibile pensare che solo pochi chilometri al di sotto dei
nostri piedi scorrano fiumi di lava incandescente, questa è infatti una
delle zone vulcaniche e sismiche più attive della regione. Noi nel
frattempo siamo ancora a -6C°, con il freddo che si insinua nelle parti
più remote del corpo bloccandole nella sua morsa muta. Con queste
prerogative facciamo colazione scaldando il latte e cuocendo le uova
nell’acqua bollente che fuoriesce dalla terra. Nei pressi di alcuni geyser
si può notare una scia color mattone che ha ricoperto la terra lungo tutto
il corso dell’acqua e ci viene spiegato che si è scoperto solo pochi anni
orsono che si tratta di forme di vita elementari, per lo più batteri. La
scoperta ha avuto dell’incredibile soprattutto perché fino ad allora non si
credeva che esistessero forme di vita in grado di vivere in un clima tanto
ostile; oltre all’altissima temperatura infatti queste acque sono cariche di
veleni e la stessa aria che si respira in queste nuvole di vapore è ricca, tra
le altre cose, di arsenico.
Continuo a sentirmi la testa leggera e ad evitare bruschi
movimenti; la prima cosa che succede andando in altura, ed anche la più
rischiosa, è infatti il brusco innalzamento della pressione corporea, e a
questo si deve poi aggiungere la scarsità di ossigeno che contribuisce ad
accelerare il respiro e ad aumentare il battito cardiaco. Con la colazione
ci viene offerto anche il famoso mate de coca, un infuso di foglie
dell’omonima pianta che viene usato per diminuire il senso di
affaticamento dovuto all’altura; confesso che sono curioso di provare
questa tanto decantata bevanda, ma mi sento già abbastanza agitato
senza, e decido di rimandare la prova a quando il corpo si sarà
acclimatato da solo.
Ora il Sole è sbucato da dietro la cresta di montagne dall’aspetto
innocuo, ma che in realtà sono quasi tutti vulcani attivi, ed il solo esserne
colpito dai raggi provoca una immediata sensazione di calore che si
libera lungo tutto il corpo. Prima di lasciare il campo c’è spazio anche
per un bagno nelle acque termali che sgorgano a 34C° dalle piscine
naturali sparse lungo tutta l’area. Ci rilassiamo qualche minuto mentre
osserviamo le fumarole che vanno calando di intensità con l’arrivo del
giorno e il cielo che qui a queste quote sembra di un azzurro più intenso
e mai visto prima. La discesa verso San Pedro è condita da numerosi
avvistamenti di animali: uccelli acquatici, vigogne, lama, piccoli e grossi
roditori non sfuggono all’occhio esperto della nostra guida che ce li
indica fermando prontamente il mezzo.
Il pomeriggio è dedicato al riposo e alla riflessione in attesa che
il sole allenti la morsa per andare ad esplorare la Valle della Luna, una
conformazione rocciosa all’interno della Cordigliera de la Sal. Domani
invece sarà la giornata dedicata alla visita di Chuquicamata, l’ultimo
giorno di relativo riposo prima di intraprendere la via della Bolivia. In
tutti questi mesi prima della partenza ho a lungo sognato e allo stesso
tempo temuto l’arrivo di questo giorno; le piste del Sud Lipez boliviano
sembrano essere decisamente impegnative e dopo diversi consulti con
chi le ha già percorse è stato deciso in anticipo che le percorrerò da solo.
Linda salirà con un tour organizzato di tre giorni così eviteremo
spiacevoli inconvenienti e soprattutto eviteremo il rischio di perderci,
eventualità che in un territorio ostile come questo potrebbe essere fatale,
poi superato quest’ultimo ostacolo davanti a me si dovrebbe finalmente
aprire l’immensa vastità di un luogo su cui a lungo ho fantasticato: lo
sconfinato Salar de Uyuni.
Quando il Sole inizia a mollare la presa mi metto nei panni del
meccanico provetto e faccio una veloce operazione di manutenzione alla
moto: rabbocco olio, ingrassaggio catena e apertura dei fori
preventivamente praticati nel filter box per aumentare l’aria in ingresso
nei carburatori. Alle sei del pomeriggio saltiamo in sella, oltrepassiamo
la Cordigliera de la Sal ed entriamo in quello che viene chiamato “piano
della pazienza”: una grande pianura compresa tra le due cordigliere. Il
vento è forte e fastidioso come tutti i pomeriggi, anche se sembra che
appena entrati nella valle protetti dalle alte guglie di roccia ci sia un
attimo di tregua. Tengo il gas al minimo per godermi l’ingresso
trionfante tra anfiteatri di roccia e paesaggi lunari; sembra che anche qui
la natura si sia divertita a creare forme strane e paesaggi il più surreali
possibile. Dopo una breve passeggiata tra i canyon ci rechiamo alla
grande duna per assaporarvi il tramonto. Tra due crinali di roccia il vento
che soffia infaticabile ha creato una immensa duna di sabbia finissima, la
scalata è lunga e faticosa ma il paesaggio arrivati lassù domina tutta la
valle. Ora il vento che soffia arcigno provoca sottili scie di sabbia che si
innalzano dalla duna e si dissolvono verso il cielo, io corro avanti e
indietro con la mia macchina fotografica per catturare immagini
splendide, o forse con la sola vana illusione di poter catturare l’istante
che fugge eternamente e renderlo indelebile agli scherzi della memoria.
Passione quella per la documentazione fotografica dei viaggi che mi
sono ritrovato improvvisamente tra le mani insieme a quella più viscerale
per la scrittura.
Lasciamo la valle in concomitanza con l’arrivo del gruppo di
motociclisti cileni che ci salutano sorridenti; il vulcano Licancabur sullo
sfondo ci regala nel frattempo la sua metamorfosi mutando dall’arancio
all’indaco mentre gli ultimi raggi di luce colpiscono le sue forme, e ci
ricorda che mancano poco più di ventiquattro ore al momento in cui lo
vedremo da molto, molto vicino.
La serata la trascorriamo in un ristorante di impronta
decisamente turistica, tra bistecche di carne argentina e un ottimo
cabernet sauvignon cileno. L’attrazione più curiosa è però il cameriere
che dopo un po’ inizia a parlare italiano, con spiccato accento genovese,
ad una coppia del tavolo vicino al nostro. Racconta di dieci anni passati
tra Genova e Livorno; effettivamente avevo notato che lavorava ad un
ritmo insolito per un sudamericano anche se, dal continuo tirar su con il
naso, avevo il forte sospetto che si trattasse più che altro di doping……
NONO GIORNO
L’ultima notte a San Pedro passa più tranquilla delle altre con il
“nostro” fidato cagnolino che ci fa la guardia tutta la notte davanti alla
porta; abbiamo preso l’abitudine di dare qualche biscotto a uno dei tanti
cani che vagano per il campeggio e lui, o per meglio dire lei, in tutta
risposta ci veglia con devozione già da due notti.
La prima cosa che facciamo in mattinata è andare a prenotare
l’escursione per la Bolivia; ieri abbiamo fatto un giro per le varie agenzie
e abbiamo deciso per quella che faceva meno problemi riguardo alla mia
presenza in moto al seguito. Tra tutte ne abbiamo infatti sentite di tutti i
colori: chi diceva che non si poteva, chi che non avevo sufficiente
benzina e che nel caso avrei dovuto arrangiarmi perché non si trova
lungo il percorso e loro non possono portarla anche per me, e qualcuno
addirittura consigliava di lasciar perdere e fare la strada asfaltata che
passa da Ollagüe e va diretta al Salar senza passare dal Sud Lipez. Per
Gabriel della Colque Tour infine non c’era nessun problema, anzi, mi
dice che la benzina si può trovare sia alla Laguna Colorada che in altri
paesini di passaggio, ed inoltre, nonostante la mia disponibilità a pagare
anche l’intera quota a costo di non avere problemi, mi applica il
pagamento del solo 50% della somma totale; cifra nella quale sono
inclusi pasti e pernottamenti. Gabriel è un uomo dalla pelle ambrata, non
molto alto, con i capelli scuri e un volto al quale se dovessi dare una
definizione giudicherei simpatico. Parlando ci racconta un po’ della sua
vita e anche di essere di origini boliviane; questo mi dà qualche garanzia
in più riguardo alle sue parole, anche se è comunque bene diffidare
sempre almeno in parte da chi ti sta vendendo qualcosa. Sembra che la
mia moto gli piaccia molto e mi racconta che in passato aveva una
Kawasaki, al ché, visti i problemi che probabilmente mi ritroverò il
giorno in cui dovremo fare ritorno a casa, gli chiedo se vuole comprare la
mia Yamaha. Ad un tratto lo sguardo brilla e gli si accende come quello
di un ragazzino, ci sediamo e dopo vari preamboli in cui tento di far
emettere il primo prezzo di offerta a lui, mi convinco a sparare un prezzo
più che onesto non sapendo che reazione avrà: il valore della moto in
Italia meno i soldi della spedizione……risultato 700$ circa.
Considerando che anche se andasse tutto bene dovrei poi recuperarla al
porto di Livorno e rimetterla a posto, penso che questa cifra sarebbe un
affare per tutti e due. La mia richiesta sembra fare centro e lui si mostra
molto contento della mia offerta, tanto che, oltre ad essere disposto a
mandare qualcuno a Iquique il 2 di gennaio per ritirarla, mi dice che
vuole offrirmi più di quello che gli ho chiesto e pagarmi anche la tassa di
esportazione definitiva che dovrebbe corrispondere, per il territorio
cileno, a circa il 6% del valore.
La sorpresa più grossa me la ritrovo però al momento di pagare il
tour: Gabriel striscia più volte la mia carta di credito nell’apposito
marchingegno, ma sembra però che non voglia saperne di funzionare.
Corriamo a prendere la carta di Linda mentre un terribile presentimento
si impadronisce di me……le potenti calamite della borsa da serbatoio,
che utilizziamo anche come zaino, hanno fatto fuori la banda
magnetica…….la carta di Linda era custodita insieme alla mia e
abbiamo ancora più di venti giorni di viaggio davanti a noi!! Appena
recuperata la carta ci gettiamo in un bancomat e scopriamo che funziona
ancora, d’ora in avanti dovremmo però prestare un’attenzione maniacale
al fatto che zaino e carta restino il più lontano possibile tra di loro
essendo rimasta ora l’unica nostra fonte di sostentamento per le prossime
tre settimane.
Scampato il pericolo, alle dodici in punto ci mettiamo in viaggio
per Chuquicamata. Copriamo velocemente i cento chilometri che ci
separano da Calama e puntiamo in alto, lungo il rettilineo che muore
all’ingresso della miniera. Lo stratagemma dei buchi praticati nella
scatola filtro sembra funzionare visto che percorriamo la salita ad oltre
140 km/h con forte vento laterale, percorso nel quale solo due giorni
orsono faticavamo a raggiungere i 100 km/h; non dimenticando che
siamo praticamente a tremila metri con un motore carburato per
funzionare a livello del mare.
Veniamo raggruppati insieme ad altri visitatori davanti
all’ingresso, ci viene dato un casco, ed una volta saliti sull’autobus della
compagnia che gestisce la miniera (CODELCO) gli operatori ci
impartiscono le rigide disposizioni di sicurezza; alcuni vengono fatti
scendere in quanto non rispettano le norme prescritte (pantaloni lunghi,
maglie con maniche lunghe, scarpe chiuse). La sicurezza sembra essere
al centro dell’attenzione, ci viene spiegato accuratamente che non si
tratta di un giro turistico ma di una visita in un luogo di lavoro e messe
ben in chiaro le regole partiamo per la miniera.
La prima sosta è presso la città fantasma che porta il nome
omonimo della miniera. Il paese è completo in tutto e per tutto: cinema,
banche, parchi, case, solo che non ci sono abitanti perché tutti sono stati
trasferiti a Calama. I motivi del trasferimento sono principalmente due: il
primo, a mio avviso di copertura, è la tutela della salute dei lavoratori
ormai troppo vicini alla miniera vera e propria, il secondo invece, non
ufficiale ma più evidente, è il denaro; infatti oltre ad aver già seppellito
con la terra post-estrazione un ospedale avanzatissimo, ora la compagnia
mineraria sta per seppellire la città. I camion che movimentano la terra
consumano una quantità di gasolio inimmaginabile e a conti fatti costa
meno trasferire una piccola città che percorrere cinquecento metri in più
a carico. Ci rimettiamo in moto e l’autobus percorre una strada che sale
lungo i cerros artificiali creati con il terreno già estratto e lavorato,
costeggiamo immense montagne di roccia che sfumano dal crema al
verde bottiglia poi, attraversate le rotaie dei treni che puntualmente
salpano verso il porto di Mejillones trasportando il loro prezioso carico
in catodi di rame o in bidoni di acido solforico, imbocchiamo una strada
in discesa. Veniamo fatti scendere all’interno di un’area recintata e,
mentre alle nostre spalle passano camion grossi come una villetta a
schiera che consumano tremila litri di gasolio al giorno, ci affacciamo
sulla più grossa buca artificiale che l’uomo abbia mai creato. I cerchi
concentrici si stringono dalla sommità all’abisso con una spirale in fondo
alla quale gli scavatori continuano infaticabili a sprofondare le loro
bocche affamate nella roccia; sbuffi di polvere bianca si alzano dalle
trivelle e dalle ruote dei bestioni che senza sosta spingono tonnellate di
roccia verso il cielo. La buca sembra la rappresentazione dell’inferno
dantesco, con la differenza che qui la punizione è la stessa per tutto il
cono e che la vista è quanto meno sublime agli occhi: l’immensa fossa si
staglia contro un cielo che appare dipinto con mano ferma e sulla quale
nessuna nuvola osa posarsi per ammirare la scena. Il mio dito clicca
impazzito sulla macchina fotografica mentre l’orecchio, teso alle parole
della guida, apprende che le dimensioni di questa opera umana sono di 5
chilometri in lunghezza, 2,5 chilometri in larghezza e 1 chilometro in
profondità! Non bastasse, a poca distanza da qui ci sono altre due buche
poco più piccole e la previsione è di unirle tutte e tre nell’arco dei
prossimi dieci anni!
Gettato l’ultimo sguardo ammirato su questa opera umana, che
per ingegno rischia almeno per una volta di offuscare quella della natura,
veniamo fatti risalire sul bus per un lungo sguardo alla zona industriale
dove si svolgono i processi chimici di estrazione del metallo pregiato.
Scrutiamo da un colle la fabbrica e le ciminiere che appestano l’aria con
fumi biancastri, e poco lontano sulla nostra sinistra le vasche di
decantazione appaiono come grandi bacinelle ricolme di un liquido che
sembra aver rubato i colori al cielo.
Lasciamo con questa ultima immagine una miniera che da queste
parti da decenni è molto più di un luogo di lavoro, è quello che muove vita e
morte di molte famiglie, che muove speranza e disperazione di una
popolazione che non può che prescindere da essa e dalla ricchezza che ne
deriva. Una miniera che ci viene detto abbia prodotto, nel solo anno solare
2008, quasi 1 milione di tonnellate di rame, ma la lasciamo anche senza
dimenticare quel giovane medico e viaggiatore argentino di nome Ernesto
Guevara de la Serna, ancora ben lontano dall’esperienza rivoluzionaria, che
durante il viaggio per le strade del Sudamerica si fermò qui in questo
luogo a parlare con gli indios mineros stravolti dal duro lavoro dei
processi minerari.
L’economia del Cile è tutt’ora basata principalmente sulle
esportazioni di materie prime e nonostante il paese sia il quarto
produttore al mondo di prodotti ittici, le sue terre sono principalmente
incolte e non bastano di certo a sopperire al fabbisogno nazionale.
Nonostante questo la bilancia commerciale del paese è in attivo e il
suo debito pubblico è estremamente contenuto soprattutto in relazione
al prodotto interno lordo, basti pensare che a inizio millennio era di
circa 40 miliardi di $ corrispondenti al 15% del PIL.
Prima di sera siamo di nuovo a San Pedro e non ci resta che
preparare i bagagli per la nuova avventura che ci attende nei prossimi
giorni; dopo tre giorni di sosta iniziavamo ad ambientarci, ma la
strada ci chiama. È inutile negare che è da quando siamo arrivati qui
che il mio sguardo cerca ad ogni occasione, quasi a voler conferma
della sua esistenza, la sottile striscia grigia che sale verso le pendici
del vulcano Licancabur perdendosi in territorio boliviano da un lato e
argentino dall’altro. Domani con l’aria fresca del mattino sul viso
punterò dritto verso l’incognita che si apre lungo l’ambiguo crinale
andino che si staglia contro il cielo, verso vasti spazi aperti e verso
terre di nessuno. Dopo il Sud Lipez e il salar avremo ancora giornate
caratterizzate da lunghi spostamenti, prima verso La Paz, poi verso
Puno per arrivare infine a Cuzco. Arrivederci Cile e arrivederci San
Pedro de Atacama, sperando che saprai conservare il volto di terra di
confine e di passaggio che ancora ti contraddistingue senza svenderti
del tutto al turismo di massa.